Tra le ragioni per cui un rapporto di lavoro può cessare primeggia il licenziamento, che è l’atto con il quale il datore di lavoro recede unilateralmente (cioè, si tira indietro) dal contratto di lavoro.
Affinché il licenziamento possa essere considerato legittimo, cioè efficace e valido per legge, “esso deve rispondere a determinati requisiti” (formali e sostanziali) posti a tutela del lavoratore (considerato dal legislatore il contraente più debole e, perciò, più meritevole di tutela).
Innanzitutto, il licenziamento deve essere comunicato al lavoratore in forma scritta. Qualora, infatti, la comunicazione avvenga oralmente, il lavoratore resta dipendente a tutti gli effetti e, nel proprio interesse, sarà opportuno che si presenti sul luogo di lavoro, potendo altrimenti la sua assenza costituire il pretesto che il datore attendeva da tempo e trasformarsi in un “giustificato motivo” di licenziamento (dal momento che in questi casi non risulterebbero certificazioni, ad es. mediche, idonee a giustificarla). In forma scritta deve essere operata anche la comunicazione dei motivi di licenziamento.
In secondo luogo, il licenziamento, per essere considerato legittimo, deve essere sorretto da “giusta causa” o da “giustificato motivo”.
Il licenziamento per “giusta causa” si ha quando non è più possibile la prosecuzione, anche solo provvisoria, del rapporto di lavoro a causa di “comportamenti del lavoratore (che potranno essere anche estranei al rapporto di lavoro) di tale gravità da far venir meno nel datore la fiducia su cui è improntato il rapporto medesimo” (es. furto da parte del dipendente di attrezzi o altro materiale aziendale; danneggiamento dei macchinari; assenze ingiustificate; ripetuti ritardi ingiustificati; ubriachezza; comportamento scorretto o offensivo verso gli altri colleghi; ecc). Il licenziamento per “giusta causa” è anche detto licenziamento “in tronco”, perché può essere intimato dal datore “seduta stante” e, quindi, senza obbligo di alcun preavviso.
Il licenziamento per “giustificato motivo” si ha:
1) in presenza di fatti (strettamente attinenti al rapporto di lavoro) che, sebbene meno gravi rispetto all’ipotesi di giusta causa, siano comunque tali da indebolire la fiducia posta alla base del rapporto di lavoro (c.d. “giustificato motivo” soggettivo);
2) per cause che non dipendono dal lavoratore, ma che attengono ad esigenze dell’impresa (es. non viene ritenuta più utile l’attività svolta da una sezione dell’azienda e si decide di eliminarla unitamente ai relativi posti di lavoro (c.d. “GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO”).
Il licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo può essere intimato al lavoratore, cioè comunicato (come già detto, per iscritto) solo dopo che il datore di lavoro gli abbia per iscritto contestato l’addebito (cioè solo dopo che gli abbia reso noto il comportamento ritenuto scorretto) e gli abbia dato il tempo di presentare le proprie giustificazioni: 5 gg. dalla ricezione della lettera di contestazione.
“In ogni caso di intimazione di licenziamento IL LAVORATORE DEVE FARE ATTENZIONE AD IMPUGNARLO con atto scritto, anche stragiudiziale (cioè anche una semplice lettera), ENTRO 60 GG. DALLA SUA COMUNICAZIONE, altrimenti decade dalla possibilità di far valere i suoi diritti”, cioè perde definitivamente la possibilità “per il futuro” di agire contro il datore per ottenere il ripristino del rapporto di lavoro. Il recentissimo “Collegato Lavoro” del novembre 2010, peraltro, ha fissato anche un termine entro il quale bisogna proporre, a pena di decadenza, il ricorso giudiziale: al massimo 270 giorni dopo aver impugnato il licenziamento (in passato, invece, valeva normalmente il termine di prescrizione di 5 anni).
Una volta proposto il ricorso, se il Giudice del Lavoro, a conclusione del giudizio, si pronunzierà per l’illegittimità del licenziamento, ci saranno conseguenze diverse a seconda delle dimensioni dell’azienda datrice di lavoro.
In particolare, se “il datore di lavoro ha più di 15 dipendenti”, alla sentenza del giudice che annulla o dichiara inefficace il licenziamento seguirà l’obbligo del datore di reintegrare il lavoratore nel suo posto di lavoro e di risarcirgli il danno patito corrispondendogli un’indennità pari agli stipendi non pagati dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, con facoltà del lavoratore che decidesse di non tornare a lavorare presso il vecchio datore di chiedere, in luogo della reintegrazione, la corresponsione di una ulteriore indennità pari a 15 mensilità (c.d. indennità sostitutiva della reintegrazione): c.d. Tutela Reale.
Se, invece, “il datore di lavoro ha meno di 15 dipendenti”, la tutela del lavoratore contro il licenziamento illegittimo è molto più debole: il datore infatti potrà, a scelta, o riassumere entro 3 gg. il lavoratore o, in alternativa, versargli un’indennità di importo compreso tra 2,5 e 6 mensilità (maggiorabile fino a 10 mensilità per il lavoratore con anzianità superiore a 10 anni e fino a 14 mensilità per il lavoratore con anzianità superiore a 20 anni): c.d. Tutela Obbligatoria.
avv. Giovanna Piera PEDONE – via Birago n. 53, LECCE
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