Nate dalla costola di Adamo, secondo l’Antico Testamento, ma preistorico simbolo di fertilità; emblema della famiglia ma anche del peccato originale; lodate dall’Amor Cortese nel Dolce Stil Novo, ma tacciate di stregoneria dopo neanche un secolo.
Ancora vittime di pregiudizi tutti racchiusi nell’epiteto “il sesso debole”, ma alle volte troppo emancipate da aver quasi perso il fascino del mistero. Come diceva Oriana Fallaci “Essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida, che non finisce mai”.
Alda Merini
“Anche la follia merita i suoi applausi”, diceva, e la sua di follia merita davvero applausi a non finire. Alda Merini non è solo una delle più grandi poetesse di tutti tempi, lei, “una piccola ape furibonda” come amava definirsi, è soprattutto un esempio, un esempio di donna che ha vinto. La sua vittoria si evince in ogni suo verso, la sua vittoria è la vittoria contro la povertà, contro la solitudine, contro il manicomio, contro la pazzia, che parafrasando i suoi versi la visitava almeno due volte al giorno, e che ha saputo tramutare in arte, potendola così addomesticare.
Nacque a Milano nel 1931, e come lei stessa ci specifica con i suoi celebri versi: “Sono nata il ventuno a primavera, ma non sapevo che nascere folle, aprire le zolle potesse scatenar tempesta”.
Aveva solo 15 anni quando esordì come poetessa, la poesia non era solo passione per lei, era “la pelle del poeta”, era “la pistola puntata alla testa”, era la forma per poter dare vita ai suoi silenzi, alla sua solitudine, alla sua follia, la missione della sua vita perché “I poeti lavorano di notte, […] i poeti lavorano nel buio, […] ma i poeti, nel loro silenzio fanno ben più rumore di una dorata cupola di stelle”.
Non trascorse un’infanzia semplice, durante la guerra la sua casa venne rasa al suolo, tanto che fu costretta a scappare a Vercelli con la sua famiglia, per poi tornare a guerra finita.
Nel 1954, terminata la tormentata storia d’amore con lo scrittore Giorgio Manganelli, sposò Ettore Carniti, un uomo che l’amava profondamente e di cui anche lei era perdutamente innamorata, ma che certo non può essere ricordato come un marito perfetto, dal momento che a causa dell’alcool spesso diventava violento nei suoi confronti. Fu sempre nello stesso anno che vide la luce la sua prima raccolta poetica, “La presenza di Orfeo”, a cui seguirono “Paura di Dio”, “Nozze Romane” e l’opera in prosa “La pazza dalla porta accanto”.
Le “ombre della sua mente”, che già erano apparse per la prima volta quando aveva solo 18 anni, si ripresentarono e in modo più preponderante dopo la nascita della sua primogenita, Emanuela, e la portarono a vivere in una clinica un lungo periodo triste e di isolamento, intervallato da momenti di lucidità in cui ebbe la possibilità di tornare a casa dal marito e di avere le sue altre tre figlie.
Nel 1979 tornò finalmente a scrivere per forgiare quello che è ritenuto uno dei suoi più grandi capolavori, “La terra santa”. I guai sembravano ormai lontani, ma la morte del marito del 1981 la riportò ad una stato di abbandono e solitudine, dal quale si riprese solo grazie all’amicizia affettuosa che coltivò dapprima solo virtualmente con il poeta Pierri, per poi sposarlo nel 1983, raggiungendolo a Taranto.
Anche in questo caso la serenità durò ben poco: l’aggravarsi della malattia del compagno fece sì che i figli, che non avevano mai benvisto l’unione, riuscissero ad allontanarla, gettandola nello sconforto più totale, e riconsegnandola ancora una volta all’orrore della pazzia e del manicomio.
Tornata a Milano riuscì a riappropriarsi della sua vita, e iniziò un periodo molto proficuo per la sua attività artistica con le pubblicazioni di “L’altra verità. Diario di una diversa” in prosa, e ancora “Le parole di Alda Merini”, “Ipotenusa d’amore”, “Titano amori intorno” che la consacrarono definitivamente tra i grandi della letteratura contemporanea con l’assegnazione del Premio Librex Guggenheim “Eugenio Montale”. Le pubblicazioni non si arrestarono e con “Sogno e Poesia” e “La vita facile” arrivarono anche altri due prestigiosi premi: il Premio Viareggio e il Premio Procida – Elsa Morante.
Verso la fine degli anni novanta la poesia della “poetessa dei Navigli”, quella poesia viva che nasceva dalle viscere, e saltava fuori di getto a costruire un’immagine vivida sul foglio bianco, o alle volte anche sulle pareti della sua casa milanese, pian piano si trasformò, facendo riemergere la sua oralità e il suo misticismo, che trovarono forma negli aforismi poi raccolti in “Aforismi e magie”.
Nel 2004 cominciarono ad affacciarsi una serie di problemi che la porteranno poi a spegnersi nel 2009, in un clima di affetto e popolarità che cresceva di giorno in giorno, non solo legato alla sua poesia, ma soprattutto alla sua figura di donna che nonostante la sua pazzia, nonostante il manicomio, ha saputo godere della sua vita, come lei stessa dirà, infatti, “a dispetto di quello che vanno dicendo sul manicomio, io la vita l’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita e la vita spesso è un inferno…per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara”.