Mancano ormai poche ore e le urne torneranno ad aprirsi. Archivaite le elezioni amministrative, questa volta tutti gli italiani sono chiamati ad esprimersi sui quattro referendum in materie di acqua, nucleare e legittimo impedimento. Saltato l'”election day” e l’accorpamento con la tornata elettorale del 17 maggio, l’appuntamento con i referndum è fissato per domenica 12 e lunedì 13 giugno.
Come evidenziato perfino dall’AGCOM l’informazione sui quattro quesiti referendari non è stata delle più esaustive sulle televisioni nazionali, ma i temi sottoposti al giudizio degli italiani restano di importanza capitale per il futuro del Paese e meritano un approfondimento.
Vale quindi la pena fare una rapida immersione nelle quattro schede che domenica e lunedì ci ritroveremo di fronte per capire meglio su quale risposta dovemo mettere la nostra croce.
I quesiti, come detto, sono quattro: due riguardano l’acqua (o meglio la privatizzazione della gestione dell’acqua), uno l’energia nucleare e uno la legge sul legittimo impedimento.
Partiamo dai primi due, quelli che riguardano l’acqua e che compariranno sulle schede di colore rosso e giallo.
Questa è la domanda che troveremo sula scheda rossa:
Volete Voi che sia abrogato l’art. 23-bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e finanza la perequazione tributaria”, convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 30, comma 26, della legge 23 luglio 2009, n. 99, recante “Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia”, e dall’art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, recante
“Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea”, convertito, con modificazioni, in legge 20 novembre 2009, n. 166, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 325 del 2010 della Corte costituzionale?
In sintesi la scheda rossa chiede se vogliamo abrogare l’articolo 23 bis del cosiddetto Decreto Ronchi, varato da questo governo nel 2008 che tratta le modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali pagati dai cittadini (“di rilevanza economica”). In sostanza il decreto stabilisce che entro dicembre 2011 le varie società che gestiscono i servizi idrici locali dovranno diventare private per almeno il 40%. Ciò significa che quelle società pubbliche che attualmente gestiscono i servizi di distribuzione dell’acqua dovranno, per legge, cedere ai privati almeno il 40% del capitale sociale, con la conseguente privatizzazione di fatto del servizio. Seppur attraverso regolari gare, il privato infatti difficilmente si limiterà al 40% (quota minima) ma tenderà ad acquisire il controllo della società (una quota superiore al 50%) aprezzi favoreli determinati dall’obbligo di cessione. Conviene ai cittadini che una società privata o compartecipata a maggioranza privata gestisca un servizio pubblico come la gestione dell’acqua?
Se è vero che le gestione pubblica in Italia non è sempre sinonimo di efficienza, è altrettanto vero che nemmeno la gestione privata offre garanzie certe.
La gestione pubblica o a maggioranza pubblica offre però ai cittadini la possibilità di esercitare un controllo democratico, anche se indiretto, attraverso i propri rappresentanti istituzionali che sono appunto chiamati a contollare la corretta gestione del servizio idrico e possono essere premiati o puniti attraverso il voto.
Con la gestione privata o a maggioranza privata i sistemi di controllo in mano ai cittadini sarebbero annullati o drasticamente ridimensionati lasciando spazio ai poteri decisionali della società di gestione controllante o proprietaria.
Va ricordato poi che le società private hanno ovviamene come obiettivo la realizzazione del profitto: posto che i costi di gestione dell’acqua sono inevitabili, la ricerca del proftto da parte del soggetto privato diventerebbe inevitabilmente un fattore decisivo nella determinazione del prezzo di un servizio indispensabile per i cittadini, che i cittadini stessi dovrebbero sostenere.
Insomma i cittadini devono scegliere tra una gestione, quella privata, che ha come obiettivo il profitto, e un’altra, quella pubblica, che ha come obiettivo la buona salute e la buona gestione del servizio.
L’obiezione classica dice che i capitali privati gioverebbero all’efficienza del servizio attraverso il miglioramento degli impianti. Ma per migliorare gli impianti servono ingenti investimenti: non esiste però legge che obblighi i privati a garantire quegli investimenti e quei miglioramenti, anzi.
A questo proposito entra in gioco il secondo quesito sull’acqua, scheda gialla: “Vlete voi che sia abrogato il comma 1, dell’art. 154 (Tariffa del ser¬vi¬zio idrico in¬te¬grato) del Decreto Le¬gislativo n. 152 del 3 aprile 2006 “Norme in ma¬te¬ria am¬bien¬tale”, li¬mi¬ta¬ta¬mente alla se¬guente parte: “dell’adeguatezza della re¬mu¬ne¬razione del capitale investito”?”.
Il comma sottoposto a referendum, in sostanza, dice che il capitale investito per l’acquisizione della gestione deve essere remunerato almeno del 7%. In pratica con questa norma si è stabilito per legge un profitto garantito per i privati che decidono di investire sulla gestione dell’acqua. Il problema però è che la legge stabilisce la quota minima di profitto ma non stabilisce la quota minima di investimento. Il privato incassa obbligatoriamente ma non è tenuto ad investire un centesimo. Le ripercussioni di quest’obbligo sono destinate a ricadere sulle bollette a carico dei cittadini che rischiano di veder lievitare il prezzo del servizio a causa di un guadagno obbligaorio per la società di gestione senza poter usufruire di un servizio migliore.
Questa norma porrebbe le società private che si accaparrassero la gestione dei servizi idrici completamente fuori da ogni logica di libero mercato: non solo opererebbero in regime di monopolio (a gestire lo stesso servizio non ci sarebbe una pluralità di società) ma addirittura senza il minimo rischio.
A dare ulteriori indicazioni di voto ci sono gli esempi italiani ed internazionali di privatizzazione della gestione dei servizi idrici: la Francia, dopo l’esperienza con Veonlia, è tornata alla gestione pubblica; in Italia, i cittadini che devono fare i conti (in tutti i sensi) con società di gestione private hanno visto schizzare verso l’alto gli importi delle loro bollette.
Votando SI’ si abrogano queste due norme: si dice no all’affidamento obbligatorio a società private (o a maggioranza privata) della gestione dell’acqua pubblica e si dice no al profitto garantito per le società private che gestiscono i servizi idrici.
Votando NO si lasciano intatte le due norme in esame.
Il quesito sul legittimo impedimento, scheda verde, recita così: “Volete voi che siano abrogati l’articolo 1, commi 1, 2, 3, 5, 6 nonchè l’articolo 1 della legge 7 aprile 2010 numero 51 recante “disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza?”.
La legge sul legittimo impedimento, al secolo legge 7 aprile 2010, n. 51, stabilisce che il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, in virtù della carica ricoperta, hanno diritto, se imputati, a non comparire in udienza penale per un periodo massimo di 18 mesi senza essere tenuti a dimostrare che l’impedimento sia reale e legittimo: l’imputato-ministro, attraverso una sorta di atocertificazione dichiara di non poter prendere parte alle udienze causa ininterrotti impegni di governo che non è tenuto a precisare e può chiedere il rinvio dell’udienza; il giudice è obbligato ad accettare le istanze dell’imputato-ministro senza poter giudicare l’effettiva legittimità dell’impedimento. La durata massima del rinvio stabilita dalla legge è di 18 mesi perché la legge in questione sarebbe dovuta essere una legge “ponte” in quanto, dopo un anno e mezzo appunto, era nei piani del Governo l’approvazione di una legge costituzionale che avrebbe immunizzato definitivamente le cariche di Presidente del consiglio dei ministri e dei ministri.
Il codice penale però già regolamentava la materia di legittimo impedimento: ogni cittadino infatti può invocare il legittimo impedimento a comparire in udienza penale fornendo le prove che attestino tale impedimento; la richiesta deve essere vagliata dal giudice a cui spetta la decisione finale di accettare la richiesta , se fondata, o respingerla.
La legge 7 aprile del 2010 non fa altro che particolarizzare il “legittimo impedimento” per alcune cariche istituzionali costruendo un automatismo (ministro quindi non processabile per 18 mesi) che di fatto impedisce alla giustizia, per un anno e mezzo, di processare i rappresentanti del Governo qualora fossero accusati di reati comuni (nel caso in cui fossero accusati di reati ministeriali, ovvero commessi nell’esercizio delle funzioni di governo, dovrebbero essere giudicati dal Tribunale dei ministri dietro autorizzazione delle camere).
Il primo ad usufruire di questa legge è stato proprio l’attuale Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, essendo imputato in quattro procedimenti penali.
Su istanza dei giudici del Tribunale di Milano, la legge è stata sottoposta al vaglio di costituzionalità da parte della Corte Costituzionale che nel gennaio di quest’anno si è espressa per il mantenimento in vigore della legge attraverso una sentenza interpretativa che però accoglieva le eccezioni di incostituzionalità e abrogava alcuni punti chiave della legge stessa: la sentenza della Corte ha stabilito che la Presidenza del Consiglio dei ministri non può “autocertificare” il proprio impedimento ma deve essere il giudice, caso per caso, a stabilire la legittimità della richiesta.
Resta però in piedi il comma che obbliga il giudice a valutare come legittimo impedimento le “attività preparatorie e consequenziali, nonché di ogni attività comunque coessenziale alle funzioni di Governo”, ovvero un mare magnum di situazioni che possono, se interpretate in maniera distorta, configurare legittimo impedimento anche senza esserlo e generare contenziosi infiniti tra Magistratura e Governo. Ad esempio una riunione di governo fittizia fissata appositamente nel giorno dell’udienza e presentata come “preparatorie” ad un consiglio dei ministri successivo, se non viene giudicata come impedimento legittimo dal giudice, può scatenare una serie di ricorsi sulla base dei commi ancora in vigore, bloccando oltremodo il procedimento penale.
Dicendo SI all’abrogazione di questa legge il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, se imputati per reati comuni, saranno obbligati a fornire prove del loro impedimento e rimettersi , come ogni cittadino, alla decisione del giudice che potrà accogliere o respingere la richiesta di rinvio dell’udienza da parte dell’impuato.
Votando NO si lascerà in piedi un distinguo tra i cittadini comuni e quelli che ricoprono cariche di Governo.
L’ultimo quesito, ma forse il più importante, riguarda il ritorno all’energia nucleare in Italia, scheda grigia:”Volete che siano abrogati i commi 1 e 8 dell’articolo 5 del d.l. 31/03/2011 n. 34 convertito con modificazioni dalla legge 26/05/2011 n.75?”.
Nonostante la bocciatura dell’energia nucleare in Italia nel referendum del 1987, il tema torna in agenda nel 2008 con l’insediamento del IV Governo Berlusconi. Il Piano Scajola, stilato appunto dall’ex minisro dello sviluppo economico, prevedeva la costruzione di 4 centrali nucleari (8 reattori) la cui ubicazione non era identificata.
La raccolta di firme che ha consentito la realizzazione del referendum chiedeva l’abrogazione del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, che conteneva apunto il Piano Scajola.
In seguito al disastro nucleare di Fukushima, il Governo decide di emanare un decreto legge che sospende il Piano Scajola, una moratoria di un anno che, come dirà lo stesso Berlusconi, ha l’intento di evitare che gli italiani si esprimano contro il nucleare spinti dall'”emotività” conseguente alle tragiche notizie provenienti dal Gappone: «Se fossimo andati oggi a quel referendum, il nucleare in Italia non sarebbe stato possibile per molti anni a venire. Abbiamo introdotto questa moratoria responsabilmente, per far sì che dopo un anno o due si possa tornare a discuterne con un’opinione pubblica consapevole. Siamo convinti che il nucleare sia un destino ineluttabile ». Il Governo punta su una norma che prevede, in caso di modifica della legge oggetto del referendum, la possibilità di annullare il referendum stesso.
La Corte di Cassazione però, il 1 giugno, dichiara ammissibile il referendum in quanto non basta modificare una legge per eliminare il referendum collegato ma occorre cancellare i prinicpi ispiratori di quella legge: le norme del decreto-legge di marzo invece non abrogano completamente il Piano Scajola ma ne lasciano in piedi i principi ispiratori, ovver una prospettiva energetica di tipo nucleare. La Corte ha quindi spostato il quesito abrogativo sui commi 1 e 8 del decreto legge del 31/03/2011. La decoisione è stata confermata il 7 giugno dalla Corte Costituzionale.
Cosa dicono questi commi?
Il comma 1 recita: “Al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche, mediante il supporto dell’Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea, non si procede alla definizione e attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare.”. Cioè, il progetto nucleare va in stand-by in attesa di nuovi studi e di nuove disposizioni europee. Resta un fatto strano ovvero che un Governo prima sviluppi un piano nucleare e poi cerchi “ulteriori evidenze scientifiche”.
Il comma 8 invece dice che “Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, il Consiglio dei Ministri, […] adotta la Strategia energetica nazionale, che individua le priorita’ e le misure necessarie al fine di garantire la sicurezza nella produzione di energia, la diversificazione delle fonti energetiche e delle aree geografiche di approvvigionamento, il miglioramento della competitivita’ del sistema energetico nazionale e lo sviluppo delle infrastrutture nella prospettiva del mercato interno europeo, l’incremento degli investimenti in ricerca e sviluppo nel settore energetico e la partecipazione ad accordi internazionali di cooperazione tecnologica, la sostenibilita’ ambientale nella produzione e negli usi dell’energia, anche ai fini della riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, la valorizzazione e lo sviluppo di filiere industriali nazionali.” Il tutto per dire che dopo un anno dall’approvazione del decreto la Presidenza del consiglio dei ministri potrà decidere che tipo di energia si dovrà produrre, senza escludere quella nucleare.
Ora è importante capire se agli italiani conviene lasciare le porte aperte all’energia nucleare, ovvero se conviene tornare a produrre questo tipo di energia in Italia.
Partiamo dai costi: secondo confindustria servirebbero 50 miliardi di euro per la costruzione degli 8 rerattori del Piano Scajola che entrerebbero in funzione dopo almeno 15 anni e la spesa sarebbe ammortizzata dopo parecchi decenni. I capitali sarebbero immessi dai privati ma i cittadini, attraverso la bolletta, dovrebbero contribuire all’ammortamento di quei costi.
Una volta entrate in funzione le centrali potrebbero già essere obsolete perché superate dallo sviluppo delle energie rinnovabile o da una nuova forma di nucleare, più evoluto e magari intrinsecamente sicuro; inoltre l’energia costerebbe di più agli italiani rispetto a qanto costa ora, importandola dalla Francia: oggi non dobbiamo ammortizzare gli investimenti ma soprattutto acquistaiamo energia prodotta in eccesso dai reattori francesi e quindi svenduta a prezzi minimi. Vanno calcolati gli altissimi costi di gestione, compresi quelli relativi ai sofisticatissimi sistemi di sicurezza. Dal punto di vista economico la costruzione di nuove centrali sembra poco conveniente.
In più sembra poco praticabile la costruzione di nuove centrali atomiche dal punto di vista ambientale: una cetrale nucleare infatti può essere costruita solo in aree pianeggianti, significativamente lontane dai centri abitati, in prossimità del mare e soprattutto non sismiche mentre il territorio italiano è in gran parte soggetto a rischio terremoti.
L’aspetto più importante da valutare resta però quello legato ai rischi. Gli incidenti di Chernobyl e Fukushima sono solo gli esempi più eclatanti che dimostrano come le centrali nucleari non sono intrinsecamente sicure. Un semplice errore umano o l’imprevedibile furia della natura possono generare catastrofi radioattive capaci di uccidere migliaia di persone e di rendere inabitabile un terrirtorio per centinaia di anni; gli standard di sicurezza sono troppo complessi e per quanto ben gestiti non garantiscono, come purtroppo si è visto, l’assenza di incidenti che possono essere gravissimi a fronte anche di piccole falle nei sistemi di controllo.
L’obiezione più frequente dice che un impianto di qualsiasi tipo può subire un incidente con conseguenze letali: ma i danni che possono derivare dalla caduta di una fila di pale eoliche, o dal crollo di una diga o dallo scoppio di una centrale idroelettrica sono danni “meccanici” limitati nel tempo e nello spazio mentre quelli che si generano dallo scoppio di una centrale nucleare o dalla semplice fuoriuscita di materiale radioattivo sono dilatati nel tempo e nello spazio: le radiazioni modificano le cellule umane provocando tumori e leucemie, soprattutto nei bambini, provocano cioè danni genetici che si trasmettono di generazione in generazione, oltre a rendere inabitabile il territorio circostante per decine chilometri quadrati, come detto, per centinia di anni. A distanza di 25 anni dalla catastrofe di Chernobyl il numero di malattie legate alle radiazioni nelle zone vicine al luogo del disastro raggiunge ancora picchi fuori dalla media.
Un’altra obiezione dice che l’Italia è circondata da centrali nucleari (Francia e Svizzera), quindi tanto vale costruirsele in casa. E’ evidente che un incidente oltre le Alpi avrebbe delle conseguenze profondamente diverse rispetto ad un incidente sul nostro territorio: la distanza dall’incidente è infatti una variabile determinante.
Non ci sono solo i possibili incidenti a mettere in guardia (quelli di bassa e media entità, comunque altamente dannosi, sono frequentissimi) ma anche il rischio legato alle scorie che ad oggi non possono in nessun modo essere smaltite ma solo stoccate: le scorie sono eterne, producono anch’esse radiazioni e anch’esse possono innescare catastrofi nucleari. Le scorie delle centrali italiane pre-referendum ’87 sono ancora attive e altamente pericolose.
Si dice poi che le centrali nucleari non abbiano emissioni: purtroppo non è vero perché uno studio del Governo federale tedesco dimostra che la popolazione (soprattutto infantile) che risiede nel raggio di 5 km da una centrale ha l’86% di possibilità in più di contrarre malattie rispetto a chi risiede lontano dalle centrali.
L’ultima obiezione dice che anche le emissioni delle centrali a carbone producono migliaia di morti: ma il punto è sostituire tutte le fonti energetiche potenzialmete letali con fonti energetiche a richio 0. Avrebbe infatti poco senso sostituire una centrale a carbone con una atomica, potenzialmente ancora più nociva.
La presenza delle energie rinnovabili e il margine di sviluppo collegato ad esse rappresenta un’alternativa sostenibile che, conti (economici e umani) alla mano, sembrerebbe più opportuno inseguire.
Con il Sì dunque si chiuderebbero le porte in maniera definitiva all’energia nucleare così come è concepita oggi, a tutti i rischi e alle controindicazioni ad essa collegate.
Votando NO si consente al Governo di poter proseguire, fra un anno, sulla strada del nucleare.
Qualunque sia la posizione sui vari quesiti, vista l’imposrtanza dei temi in questione e l’impatto che possono avere sull’esistenza di tutti i cittadini le leggi in esame, una cosa è certa: conviene andare a votare. E’ un occasione irripetibile per esprimere la propria posizione direttamente e senza intermediari politici su temi che non hanno colori politici. Buon voto a tutti.