Sta per prendere il via il progetto – evento di “Ti racconto a Capo” che vede, tra i suoi momenti culturalmente più significativi, e di maggiore capacità d’attrazione per il pubblico, la residenza teatrale che si terrà dal 31 luglio al 9 agosto con la direzione artistica di Ippolito Chiarello, affermato e apprezzato attore legato alla sua terra. Di ritorno da Bari, dove ha appena sostenuto un provino, parliamo di un po’ di tutto e ridiamo di gusto.
Come nasce l’idea della residenza teatrale che già c’era lo scorso anno e qual è il valore aggiunto che porta?
L’esperienza della residenza nasce perché, dopo aver esplorato diverse possibilità di fare formazione, ho capito che l’unico modo per lasciare qualcosa di concreto a chi vuole conoscere questo mestiere è quello di lavorare in maniera intensiva con le persone. Tutti quelli che ci partecipano possono trarne un vantaggio: formativo, umano, di diffusione della cultura, di riscoperta dei luoghi e delle tradizioni, partecipazione del pubblico al processo creativo e quindi accesso alla conoscenza. Questo è il valore aggiunto che porta la residenza. Sarà un’iniziativa che, più che come evento, definirei un processo: saranno 10 giorni in cui i ragazzi entreranno in simbiosi con il paese, che diventa un teatro a cielo aperto, un’officina in cui gli attori smettono di fare gli attori e si mettono a capire che cosa accade nella realtà che li circonda. La cosa bella è che ci sono molti giovani che sposano questa filosofia di lavoro: capire quanto è importante andare in profondità nelle cose, metterci impegno ed entusiasmo come per tutti i lavori senza aspettare che ci sia un Grande Fratello che venga a chiamarti. Insisto su questo punto: se uno parte dall’idea che fare l’attore significa solamente inseguire il successo è un perdente.
Anche a te chiedo che cosa ti ha portato a scegliere di restare qui a Lecce?
Ma perché questa terra è bellissima, straordinaria. Posti così non se ne trovano. Prima l’attore doveva andare a Roma; adesso, se costruisci il tuo mestiere e con l’aiuto delle teconologie attuali, puoi stare dove vuoi. Poi è chiaro che mi sposto per lavoro, ma la mia base rimane qui.
L’anno scorso siete partiti con una processione, quest’anno hai già qualcosa in mente?
L’anno scorso è stato bellissimo. Abbiamo fatto una processione con l’asino come santo e tanta gente a seguirlo. Avrei tanto voluto che ragliasse, ma è stato zitto tutto il tempo. Se siamo riusciti a fare la processione l’anno scorso, possiamo fare di tutto. L’idea quest’anno è più semplice: scegliamo un’unica strada dove fare tutti i teatri. Ogni frontone sarà la scenografia, Corsano sarà come una Cinecittà del Capo di Leuca. Faremo una breve processione e ci sarà la banda che introdurrà la gente verso la festa finale.
Nella scelta dei ragazzi, quali sono stati i fattori più importanti?
Innanzitutto, ho cercato di creare un gruppo eterogeneo, in modo che lo stimolo tra loro possa divenire elemento scatenante per dire qualcosa. Lo sforzo è di cercare di capire, attraverso le loro lettere, che cosa vogliono veramente. Voglio persone con una grande volontà di fare ricerca reale, che si mettano in discussione. Poi voglio che siano di diversa provenienza geografica, non solo salentini. In tal modo, più persone possono conoscere il territorio.
Che ritratto del Capo di Leuca ti aspetti che venga fuori?
Bisogna far venir fuori la sinergia e la dialettica tra chi viene da fuori e la gente di Corsano. E’ questo che ci potrà far capire quanto questa terra ha da raccontare. Corsano è strepitosa, un paese con una straordinaria disponibilità. Ha sempre avuto una grande sensibilità artistica, ha vissuto la rappresentazione delle tragedie dei santi: io mi ricordo che portavo da piccolo le sedie da casa alle 2 del pomeriggio per assistere dalle prime file. Una volta mi trovarono ustionato per il sole.
C’è un racconto particolare che rientra nei tuo ricordi da bambino?
Ricordo più che altro una modalità: andavo con la famiglia a Ginosa nelle masserie, dove facevano il tabacco. Mi ricordo che la sera, quando tutto finiva, dopo aver lavorato e mangiato tutti in un piatto, si usciva fuori e c’era il nonno che cominciava i suoi racconti. Noi ci sedevamo senza dire niente e lo ascoltavamo; magari raccontava per 5 anni le stesse cose ma per noi era bello risentirle. Mi ricordo che non avevamo bisogno di televisione e nemmeno adesso ne avremmo, se apprezzassimo queste possibilità.