Me lo ricordo ogni anno indossando cappello, guanti e sciarpa – accessori del tutto rari nel guardaroba di chi abita questa umida e sanguigna terra – a gestire un freddo secco che ieri ha dispensato fiocchi bianchi per pochi fortunati, i passanti.
Sant’Antonio Abate me lo ricordo col gelo, i piedi doloranti e le mani a cercare ripari, alto e ieratico nella lucente e sfavillante Chiesa meta di pellegrini e fedeli, nella notte del sedici Gennaio, mentre a pochi metri ardono le fascine.
Processioni di gambe e passeggini tra banchi di caramelle, odore di copeta, cappelli, orecchini, utensili per la casa – dei più vari e strambi in verità – musiche di vario genere, spesso partenopeo, alternarsi portate via dal vento.
Fumo dei dispensatori di panini con la carne, nutella e pinoli e il moscato.
Lunghi cordoni di passanti che, in una unica stretta strada, sono incanalati nelle file di luminarie che vanno alla Chiesa e dalla Chiesa portano a Piazza Tito Schipa, ove la montagna di legna arde e sfavilla pioggia di cenere.
Un viaggio in treno mi ha portato a Novoli da Lecce, dove un gruppo numeroso di giovani e famiglie nella piccola stanzetta per i biglietti delle Ferrovie del Sud Est, dimesso e lontano, sulla scia del primo binario, aspettava il proprio turno per comperare un biglietto di andata e ritorno.
Treno festoso, nuovo, ampio e caldissimo, rigenerante riparo dal freddo, preparatore per la gelida passeggiata di scoperta della fòcara e le sue meraviglie, ricovero puntuale al ritorno a casa.
La piccola Novoli sembra reggere per un anno sulle spalle solitudine e tranquillità, per attendere quel mese nuovo di zecca, fragore della tradizione, celebrazione del rito, ricordo di famiglia. Ad attendere tutti nella piazza, monumentale, scura e ascendente, la piramide di legna, frutto di segreti remoti che hanno a che fare con le mani rugose e di pelle dura, braccia forti e sapienze di saggezza ancestrale.
Guardarla dal basso è come sempre emozionante, una spirale di speranze, preghiere e riflessioni si inerpica fin sulla cima, ove l’icona di Sant’Antonio attende il fuoco, alta venticinque metri e larga venti.
Decine di schermi di fotocamere, operatori della stampa con macchine fotografiche e videocamere, occhi curiosi analogici e digitali, fuochi d’artificio sfavillanti a salutare il santo taumaturgo, curatore delle malattie del fuoco.
Fuoco che si accende e consuma per due giorni i resti delle potature degli alberi di vite, lentamente e costantemente, alimentato e orientato dai venti provvisori, legandosi indissolubilmente al lavoro e alla fatica contadina, che di queste terre è ancora linfa e nutrimento. Fuoco che brucia l’icona del Santo e i cavalli, opera d’arte di cartapesta di Mimmo Paladino, che in un rogo comune sprigiona suggestioni religiose e riferimenti artistico-letterari. Come non pensare al mitologico rogo del Cavallo di Troia, sublime metafora della pochezza umana, sprovveduta e incredula dinanzi alla grandezza della ineluttabilità della sorte.
Si resta con gli occhi in su a guardare il percorso la cui fine si conosce, fuoco affabulatore e affascinatore, che come ogni anno elargirà benedizione attraverso il fumo purificatore, evocando un rito ancestrale e profondo che usa un elemento naturale per un fine religioso. Per un attimo attendiamo che la cenere ci si posi tra i capelli, ricordando quella tanto controversa origine che della polvere ci vuole discendenti.
Basta poi voltare lo sguardo e scorgere sul palco la neonata Orchestra del Fuoco, Roy Paci, Daniele Silvestri, Ovadia, Chantel per ballare ed esorcizzare la riflessione intima sulla natura umana, ridere e accodarsi a gioiosi trenini, muoversi per scaldare i piedi, bere un bicchiere di vino in più o una birra, tanto a riportarci a casa, con il profumo del fuoco, ci pensa il treno…