Non so in che misura abbia contribuito a fare la storia, ma so che certamente è stato uno di quelli che ha fatto la storia del ciclismo, e che i giovani d’oggi, con il loro linguaggio stringato ma molto suggestivo, avrebbero certamente definito “mitico”.
Un mito lo fu perché coinvolse nelle sue vicende, sportive e non, milioni di italiani che vissero il periodo post-bellico fino alla metà degli anni cinquanta. Commentatori sportivi e grandi giornalisti, ricordo Zanetti, De Martino, Palumbo, Brera, furono veri e propri aedi nel descrivere le sue gesta e la mia generazione, grazie a loro, ha potuto conoscere questo fenomeno, ovvero Fausto Coppi.
Ero ragazzo, suo tifoso, e seguivo alla radio la radiocronaca delle ultime fasi della tappa Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia, decisiva per la vittoria finale. Il radiocronista, l’indimenticabile Mario Ferretti, prima ancora dei saluti così introdusse la trasmissione: “Un uomo solo è al comando della corsa, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi”. Questo per rappresentare quanto fosse il coinvolgimento popolare, quasi tutta la nazione egualmente divisa fra i sostenitori di Coppi e quelli di un altro grandissimo, Bartali.
La storia di Coppi si colloca nel periodo 1940-1955, periodo durante il quale, grazie anche al grande Bartali, dettò legge in campo mondiale costringendo autentici campioni, come Magni, Kubler, Koblet, Van Steenbergen e tanti altri, a fare soltanto da controfigure. Coppi fu senz’altro il più grande dove “grande” sta ad indicare qualcosa di diverso, non etichettabile, superiore a “forte”, a “celebre”, a “dotato di classe”. Oggi, come ho già scritto, i giovani lo avrebbero etichettato come “mitico” perchè le sue imprese crearono un mito.
Persino la guerra provvide a dare a Fausto Coppi un qualcosa in più, una sorta di aureola. Soldato in Tunisia, fu fatto prigioniero dagli inglesi, passò un anno in un campo di concentramento, una prigionia blanda che tuttavia gli lasciò addosso una malaria, quella stessa malaria che, fatta “rivivere” alla fine del 1959, in una partita di caccia in Alto Volta, gli costò la vita il 2 gennaio 1960.
Fausto Coppi, nacque a Castellania, vicino Novi Ligure, il 15 settembre 1919, quarto di cinque figli. Studiò fino alle elementari, lavorò nei campi fino a 14 anni, fece il garzone di un salumiere ed in tale occasione scoprì la bicicletta e si fece i muscoli portando a domicilio gli acquisti fatti dai clienti. A 16 anni ebbe in regalo da un suo zio una bici da corsa con la quale partecipò alle prime gare dilettantistiche. Il suo fisico, molto sgraziato, riusciva a sviluppare una potenza atletica fuori dal comune, a tal proposito si pensi che aveva una capacità polmonare di circa otto litri d’aria e battiti cardiaci che non superavano i 36. La struttura del suo torace lo faceva somigliare ad un gobbo all’incontrario, ma appena posizionato sulla bici gli consentiva una aerodinamicità impossibile per tutti gli altri. Il grandissimo Brera, che oltre ad essere giornalista sportivo, “inventore” tra l’altro delle pagelle calcistiche, era anche un immaginifico scrittore scrisse di come il fisico di Coppi fosse “un’invenzione della natura per completare il modestissimo estro meccanico della bicicletta”. Di questa sua sgraziata caratteristica si accorse un massaggiatore cieco, il grande Cavanna, che lo prese sotto le sue cure. Nel breve periodo durante il quale fu dilettante non combinò granchè, ma passato professionista nel 1940, dimostrò subito di che pasta fosse fatto.
Debuttò al Giro del Piemonte, andò in fuga, ma venne raggiunto da Bartali e Del Cancia che lo batterono in volata. Il Direttore tecnico della Legnano, Eberardo Pavesi, lo notò subito e gli fece firmare, seduta stante, un contratto per la Legnano, dove avrebbe dovuto fare il gregario al grande del momento che era Gino Bartali. Con questo ruolo partecipò al Giro d’Italia ma appena Pavesi notò che Bartali aveva qualche difficoltà, ordinò al giovane gregario di entrare nelle varie fughe e di fare la sua corsa. La fece a tal punto da vincere il Giro, unico atleta al mondo ad averlo vinto all’esordio tra i professionisti. Nel 1941, nonostante l’entrata in guerra dell’Italia, oltre ad aver vinto varie classiche, divenne anche campione italiano su strada. Nel 1942 scoprì la pista, attività completamente diversa ed antitetica alle scalate. Vinse il titolo italiano d’inseguimento e fu convinto a tentare, al velodromo Vigorelli, il record dell’ora detenuto dal francese Archeaumbold. In un’ora percorse 45 km. e 798 metri superando il precedente primato e mantenendo il record per 15 anni. Il tentativo gli fu suggerito dal suo staff quando, medico e massaggiatore, mentre si allenava si resero conto che era capace di fare un giro completo di pista, oltre 400 m. in completa apnea! Dopo il record partì con la sua classe di leva e fu inviato in Africa dove fu preso prigioniero dagli inglesi. Rientrato dalla prigionia nel 1945, riprese a correre e nel 1946 passò alla Bianchi.
Debuttò alla Milano-Sanremo vincendo con 14’ di distacco sul francese Teissere e facendo dire all’allora cronista anche di ciclismo, Nicolò Carosio: “in attesa del secondo, trasmettiamo un programma di musica leggera”. Mentre Bartali vinceva il Giro d’Italia, Coppi fece bottino con il Giro di Romagna, il Giro di Lombardia ed il Gran Premio delle Nazioni di Parigi, a cronometro. In quell’anno l’Italia si divise in coppiani e bartaliani. Nel 1947 vinse il Giro d’Italia, altre grandi classiche, il solito Gran Premio delle Nazioni a cronometro, ma anche il campionato mondiale ad inseguimento su pista, battendo in finale il campione uscente, l’italiano Antonio Bevilacqua. In quello stesso anno fu gratificato dalla stampa con il titolo di campionissimo. Il 1948 non fu un anno fortunato: si ritirò con tutta la squadra dal Giro d’Italia per protestare contro le spinte di cui aveva goduto Fiorenzo Magni, diventato in seguito suo grandissimo amico, non sanzionate dalla giuria. L’esasperante rivalità con Bartali raggiunse il culmine al campionato del mondo di Walkenburg quando, controllandosi a vicenda, si ritirarono insieme lasciando via libera al belga Schotte. Per questo comportamento furono entrambi squalificati dalla Federazione ciclistica.
Ma nel 1949, a trent’anni, esplose il mito di Coppi l’invincibile. In quell’anno sono più le corse vinte che quelle dove arrivò dietro qualcuno, iniziando da marzo e finendo a novembre. Iniziò con la Milano-Sanremo e concluse con il Giro di Lombardia, non senza aver messo in carniere il mondiale ad inseguimento su pista ma, soprattutto, l’accoppiata Giro e Tour de France, alla prima apparizione, cosa ritenuta all’epoca impossibile. In quel Giro d’Italia mise il marchio della sua grandezza nella tappa Cuneo-Pinerolo di 226 km con le scalate del Maddalena, Vars, Izoard e Sestriere compiendo un’impresa al limite dell’umano. Partì da solo dopo 34 km, ai piedi del Maddalena. Alla perplessità del direttore sportivo sull’opportunità della fuga, rispose dicendogli di lasciarlo fare perché erano gli altri a doversi preoccupare di lui. Percorse in solitario ben 192 km, al termine dei quali rifilò 12’ di distacco a Bartali e 28’ a Martini, futuro grande commissario tecnico, e fece uscire fuori tempo massimo ben 88 corridori, poi riammessi dalla giuria vista l’eccezionalità dell’impresa. Vinse quel giro con 28’ di vantaggio su Bartali.
Grazie all’abilità diplomatica di Alfredo Binda, grandissimo campione del passato e commissario tecnico che fece siglare a lui ed a Bartali un patto di non belligeranza, partecipò al Tour. A metà Tour, dopo una caduta e con quasi 30’ di ritardo, pensò al ritiro. Ma qui Bartali, uno che di Tour se ne intendeva avendone già vinti due, grandissimo uomo oltre che fenomenale corridore, gli fece presente che con le Alpi da scalare, con una cronometro di 120 km ancora da fare e con la sua grande forma, nulla gli poteva essere precluso. Si lasciò convincere, si riprese e dominò da par suo vincendo il Tour con Bartali secondo ad 11’. In questo Tour, tremendamente italiano, per il ciclismo di tutto il mondo, la vittoria di Coppi assunse un rilievo statistico che è destinato a restare nella storia. Nel 1950 vinse alcune classiche ma fu bersagliato dalla sfortuna: prima una caduta che lo costrinse a due mesi di gesso e poi la morte in corsa dell’amatissimo fratello Serse gli alimentarono propositi di abbandono. La sua stella tornò a brillare nel 1952 quando, oltre alle innumerevoli classiche, centrò di nuovo l’accoppiata Giro-Tour, cosa considerata prodigiosa. Certo questo risultato in seguito è stato centrato da più atleti, Anquetil, Mercks, Hinault, Indurain, Pantani ma, a parte Mercks, tutti si sono preparati solo per l’accoppiata e nessuno è riuscito a tenere dalla Milano-Sanremo fino al Giro di Lombardia.
Al suo palmares mancava soltanto il titolo mondiale su strada. Colmò questa lacuna nel 1953 sul circuito svizzero della Crespera. A cinque giri dalla fine si produsse in uno scatto micidiale con il quale staccò tutti tranne il belga Derijcke che gli rimase attaccato alla bici per quattro giri, pregustando un arrivo in volata che lo avrebbe favorito. Non aveva però previsto la rabbia e la forza di Coppi che, ad un giro dalla fine, sulla salitella della Crespera, per le forze di Derijcke peggio dell’Izoard, scattò come una furia e con un cronometrico ritmo forsennato inflisse al povero Derijcke, giunto secondo, in un solo giro, ben 6’ di distacco.
In quell’occasione scoppiò anche lo scandalo per la sua relazione con la Dama Bianca, la signora Giulia Occhini, che gli diede un figlio oltre ai guai giudiziari che da quella convivenza derivarono, in Italia all’epoca non esisteva il divorzio per cui Coppi e la signora furono considerati “pubblici concubini”. Nonostante questo riuscì a vincere il Giro di Lombardia. Nel 1955, insieme a Magni, inflisse al giovane Nencini una batosta dovuta allo scarso rispetto che questo aveva avuto in corsa nei loro riguardi. Nencini era in rosa, le montagne erano passate, si aspettava solo l’arrivo a Milano, ma da toscanaccio piuttosto linguacciuto, il bravo Nencini ebbe a ridire sul valore in corsa di entrambi. L’indomani però, penultima tappa, senza alcuna asperità, Coppi e Magni partirono a metà corsa ed alternandosi al comando con tirate pazzesche, inflissero a Nencini un distacco tale da fargli perdere la maglia rosa che fu conquistata da Magni con Coppi secondo a 13’’. Anche questa è leggenda!
Nel 1959, durante una battuta di caccia in Alto Volta, unitamente all’amico Geminiani, francese e suo ex gregario, contrasse la malaria che non gli fu individuata come tale. A Geminiani, in Francia, bastò il chinino, a Coppi non bastarono i luminari perché si spense il 2 gennaio 1960. Fu unico e grande, altri si avvicinarono, ma nessuno incarnò il mito vivente i questo airone nato per andare in bicicletta.
Mario La Mazza
(Generale dei Carristi)