Alla luce degli eventi che hanno definito il sistema lavorativo attuale, difficile risulta la conoscenza reale e dettagliata del sentiero economico e sociale da percorrere, soprattutto da parte dei giovani, che si addentrano nel mercato del lavoro. La società odierna è, senza dubbio, in rerum natura, un’organizzazione sociale evoluta, molto evoluta, in continua crescita; a dir poco complessa, un sistema a cui si potrebbe attribuire per certi aspetti, il termine paradossale.
Paradossale, infatti, è lo scenario a cui si assiste da qualche anno: molti sono i giovani meritevoli che non riescono a trovare lavoro o che svolgono i mestieri più umili, che potrebbero, invece, soddisfare altre categorie di lavoratori, i quali si ritrovano a rimanere completamente fuori dal sistema e tanti altri, per converso, che, invece, pur non avendo alcuna competenza in uno specifico settore o comunque qualche titolo che possa competere all’interno del sistema, occupano posti ambiziosi e di grande rilievo, come è noto a tutti.
Alla base di quanto accade in Italia, e soprattutto nel Meridione, in particolare nella provincia di Lecce, bisogna capire qual è l’intreccio ed il tessuto sociale che crea tutto ciò. Troppo spesso si sente dire che, il mercato del lavoro non offre più di tanto, e questa rassegnazione innesca un meccanismo di declassamento sociale. Ciò che fornisce il mercato del lavoro è determinato dal periodo storico, che sia di crescita o di crisi economica. E se la crisi fosse anche e soprattutto psicologica e sociale?
Il contesto sociale, attualmente, che piaccia o meno, può essere amico, ma molto spesso nemico di chi non raggiunge un livello di conoscenza e una massa critica di esperienze tali da capire che non è più sufficiente un incedere tradizionale, come s’è fatto fino ad un decennio fa. Un sistema veloce, che non aspetta, dinamico ed in continuo cambiamento abbandona chi non si adegua al suo corso spericolato, rispetto al quale occorrono fantasia, creatività, tenacia, intelligenza istintiva. Ed ecco che, la maggior parte dei laureati, quelli che vedono la società come un sistema logico e razionale, accantona il percorso formativo post-laurea, autodidattico o accademico che sia, per accontentarsi di un lavoro e non lottare per “il lavoro”. Automaticamente, occupano i settori bassi della scala sociale, restringono la cerchia dei lavori disponibili per chi, invece, non possiede un bagaglio culturale, di competenze e metacompetenze tali da poter innalzare socialmente ed economicamente la propria posizione. Questi ultimi disoccupati di oggi, saranno gli emarginati di domani, creando il già citato declassamento sociale. E’ giusto chiedersi se esista un responsabile? Da una parte, potremmo definire causa di tale fenomeno sociale la società stessa, ma non sono da meno i suoi giovani e in primis il sistema statale.
Una società che chiede una formazione ad hoc per poi non rispondere adeguatamente alla domanda, offrendo posti non qualificati sicuramente è da considerarsi responsabile del fenomeno, poiché diffonde tra i giovani uno spirito di rassegnazione e depressione tali da giungere all’accontentarsi. Si potrebbe pensare, quindi, alla base di ciò che, oggi, è necessario avere una laurea per fare il portalettere, l’operatore telefonico, l’operatore ecologico. In realtà, un mestiere come quelli sopra citati non richiedeva in passato alcuna dote o alcun titolo di studio particolare e non lo richiede nemmeno oggi, a parte le competenze e le metacompetenze del caso. I giovani laureati si accontentano di un lavoro qualsiasi perché sono le professioni più alte che hanno ristretto i canali di occupazione e richiedono un biglietto da visita, in cui il solo “laureato“ non è più sufficiente e, di conseguenza, senza una forte propensione allo sviluppo professionale della propria persona, la maggior parte di quella che dovrebbe essere la classe dirigente, si ritrova fuori dal proprio settore. Dall’atra parte, responsabili sono anche i giovani stessi che, non riuscendo, per rassegnazione o incapacità ad inserirsi nel contesto sociale dinamico e in crescita, diffondono la credenza che la società non offra altro di più ed incentivano la reale lotta tra precari, trascurando il raggiungimento finale del proprio obiettivo, il quale rimane solo un sogno che andrà, col tempo, a svanire, decapitando il vero motivo per cui valga la pena combattere, ovvero l’autorealizzazione, dove il sogno stesso occupa un posto decisivo.
Ma se un laureato accetta un lavoro sicuramente inferiore a quello a cui poteva ambire e si ritrova ad occupare posti di lavoro comuni, che fine faranno tutti gli altri? Che fine faranno coloro che, non possiedono alcuna formazione particolare e che non meno degli altri, hanno difficoltà ad addentrarsi in questa giungla chiamata “mondo del lavoro”?
Sicuramente, i giovani, tutti, dovranno continuare a specializzarsi continuamente e in particolare, in un settore ben preciso, con attenta riflessione e grande caparbietà. Oggi, avere anche più di una laurea e qualche master, non dà nessun accesso al mondo del lavoro, se non sono accompagnati da doti caratteriali e personali, che si vanno a concretizzare e uniformarsi nel corso delle esperienze di vita. Non è cosa facile, chiaramente. Tutto sta nel riuscire a fare nostra l’idea secondo cui, esistono tantissimi laureati, ma pochissimi specialisti di settore e chiedersi “perché?”. E’ doverosamente necessario scegliere un campo d’indagine che sia “nostro”, che eccella le nostre capacità e che ci dia, di conseguenza, quella soddisfazione tanto ambita, assieme ovviamente ad una capacità di essere aderenti alla realtà lavorativa.
Il sistema statale ha anch’esso le sue responsabilità, non essendo un sistema capace di possedere una coscienza sociale evoluta, necessaria per un organismo collettivo fortemente in espansione, con cui lo Stato, non adottando un intervento adatto, tenderà sempre a scontrarsi. L’intervento statale deve essere in grado di frenare il cosiddetto declassamento sociale, riemettendo gli incentivi sociali e riconoscendo il reddito di cittadinanza.
E’ solo con il reddito di cittadinanza che i lavoratori ed i giovani laureati potrebbero superare tutto questo. Se ci fosse, non ci sarebbe più lavoro nero, non ci sarebbero più le raccomandazioni che, ad oggi, hanno raggiunto una percentuale al limite del ridicolo. Ma cos’é il reddito di cittadinanza ed a chi spetterebbe? Un’ indennità di disoccupazione? Niente di tutto ciò. Si tratta del vivere sociale, di assicurare una vita degna a tutti solo perché cittadini e di assicurare alle persone competenti di occupare il posto di lavoro che compete loro, senza doversi accontentare del primo lavoro che capita, solo per tirare a campare, senza nessuna aspirazione finale.
In Europa esiste da vent’anni, mentre in Italia finora nessuno ne ha mai sentito parlare. In Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Danimarca, in Svezia chi non guadagna abbastanza o lavora part-time ottiene un’integrazione del reddito. Il reddito di cittadinanza, quindi, non è solo per chi non abbia un lavoro, ma anche per chi lavora, ma non guadagna abbastanza ed anche per chi, ancora non sia riuscito ad inserirsi nel mondo del lavoro, e che quindi non ha mai lavorato. Nel Lussemburgo, il reddito di cittadinanza si aggira sui 1100 euro. Quanti laureati, giovani e meno giovani, con un aiuto da parte dello Stato che spetta loro di diritto, riuscirebbero a proseguire gli studi, a formarsi, a specializzarsi ed a trovare il lavoro che gli compete?
Sabrina Arnesano