Tra i grandi meriti che ebbe Adriano, vi fu la scelta del suo successore, Antonino che diede inizio a quella che fu chiamata “ l’età degli Antonini “ arrivata fino al 192 d.C. e comprendente tre imperatori due certamente grandi, Antonino Pio e Marco Aurelio, ed il terzo, Commodo, una vera iattura degna di gareggiare in nefandezze con Caligola e Nerone.
Questa età fu caratterizzata dal massimo dell’estensione territoriale, che andava dall’Atlantico al Golfo Persico, dal Mare del Nord al deserto africano, e godette di un lungo periodo di pace, la famosa pax romana, con conseguente prosperità economica accompagnata da un vigoroso progresso urbano. I maggiori benefici li ebbero le provincie occidentali, ricche di prodotti agricoli e di industrie romanizzate con l’estensione del diritto di cittadinanza sicchè non solo mandarono forti rappresentanze al senato ed alle più alte magistrature, ma anche al trono molti imperatori, come Traiano e Adriano che con il suo Vallo Atlantico, completato dagli Antonini, diede nuova prosperità alle provincie orientali con lo smercio di prodotti di lusso che potevano giungere fino al Mediterraneo attraverso strade sicure riuscendo così ad unificare l’Urbe (Roma) con l’Orbe (il resto dell’impero).
Uno dei grandi fu proprio Antonino, cui a posteriori, fu dato il titolo di Pio. Quando nel 138 salì al trono era già cinquantenne, pochi sapevano chi fosse o quali meriti avesse, se non che esercitava l’avvocatura gratuitamente per i non abbienti, perché già ricchissimo di suo. Aveva studiato filosofia ma puntellò la sua attività con il massimo rispetto per la religione. Tutti gli volevano bene e lo avevano in simpatia perchè aveva una faccia paciosa e cordiale ed ispirava grande simpatia; nel 148 celebrò splendidamente il novecentesimo anno della fondazione di Roma; sensibile ai problemi sociali curò con numerosi editti l’educazione della gioventù istituendo anche numerosi centri di assistenza ma, uno in particolare fu famoso: quello nel quale dichiarava reo di omicidio il padrone che avesse ucciso il proprio servo, dando, per la prima volta nella storia di Roma, personalità giuridica agli schiavi.
Quest’uomo senza nemici ne ebbe uno in casa propria, la moglie Faustina che lo metteva costantemente in difficoltà con i suoi comportamenti non proprio degni della prima sinora dell’impero, avanzando sempre pretese di lusso a lui che, forse unico nella storia di Roma e, presumo di tutti i tempi compresi gli attuali, appena nominato imperatore, versò nelle casse dell’erario la sua immensa fortuna privata. Quando morì il bilancio privato era ridotto a zero mentre quello dello stato era di 2.000.000 di sesterzi, cifra mai raggiunta in seguito. Raggiunse questo risultato con una saggia opera di “spending rewiew”; in campo legislativo abolì la tortura e parificò i diritti ed i doveri fra i coniugi. Contrariamente al suo predecessore, molto inquieto e curioso, era un sedentario e mai si allontanò da Roma. Rimasto vedovo si prese una concubina che gli fu più fedele della moglie e che non coinvolse mai negli affari di stato. In politica estera cercò sempre di mantenere la pace anche a costo di fare qualche concessione ai riottosi germanici. Lo storico Appiano dice addirittura che vi fossero schiere i ambasciatori che chiedevano l’annessione dei loro paesi all’impero.
Durante i suoi ventitre anni di regno, vi fu solo ed esclusivamente la pace. Quando gli venne un fortissimo mal di pancia, capì che era arrivata la sua ora ed indicò per la successione un suo nipote, Marco Aurelio. Ordinò ai servi di portare la statua della dea Fortuna nelle stanze di Marco e diede la parola d’ordine che doveva rappresentare quella giornata: “equanimità”. Chiese di rimanere solo perché voleva dormire e nella notte sai addormentò per sempre. Era il 161 d.C.
Marco Aurelio aveva quarant’anni esatti ed era un uomo che riconosceva subito la sua fortuna affermando di “avere un grosso debito con gli dei che gli avevano dato buoni nonni, buoni genitori, una buona sorella, buoni maestri e buoni amici”. Rimasto orfano quando era ancora in fasce, fu allevato dal nonno, console in Spagna, che gli mise a disposizione i migliori precettori, ben diciassette. Si appassionò alla filosofia stoica che volle studiare e praticare, facendo togliere il letto dalla sua stanza, dormendo a terra, mantenendo la castità fino ai diciotto anni. Forse sarebbe diventato un sacerdote dello stoicismo se Antonino non lo avesse designato per tempo quale suo successore. Quando fu incoronato, tutti i filosofi dell’impero esultarono vedendo in lui il loro trionfo ed il realizzatore di quella Utopia che tanto piaceva a Platone. Ma si sbagliarono.
Non fu infatti un grande uomo di stato, ma fu uno che cercò sempre di dare il buon esempio nella gestione della cosa pubblica. La sua vita ascetica suscitava l’ammirazione del suo popolo che, però, non provava di imitarlo. Gli eventi non gli furono per nulla favorevoli. Appena incoronato si trovò con i britanni, i germani ed i persiani che cominciarono a minacciare i confini dell’impero. Marco mandò in Oriente un esercito al comando di Lucio che, novello Marco Antonio, ad Antiochia si invaghì di Pantea, novella Cleopatra, che gli fece perdere completamente la testa. Il buon Marco Aurelio, per non umiliare Lucio, preparò un piano di battaglia che fece arrivare, per via riservata, al vice di Lucio con l’ordine di eseguirlo a puntino, cosa che fece e che diede una grande vittoria ai romani. Marco gli fece decretare il trionfo ma dalla Siria, oltre alle spoglie del nemico vinto, portò anche i microbi della peste che flagellò l’Italia tutta facendo solo a Roma circa 200.000 morti. In quella circostanza, più che imperatore si rivelò infermiere; visitò ospedali e vari nosocomi, diede sostegno agli infermi e cercò di assistere il più possibile, i più bisognosi.
A queste pubbliche calamità se ne aggiunsero per lui di private. La moglie Faustina somigliava alla sua omonima madre: era bella, gioviale ed infedele, forse perché mal si conciliava la sua vitalità con l’ascetismo, la malinconia del marito che, comunque, gran galantuomo la colmò di tenerezza ed attenzioni come si evince dalla lettura delle sue “Meditazioni”. Dei quattro figli nati dal suo matrimonio, una era morta, un’altra era diventata moglie di quel Lucio innamoratosi di Pantea e dei gemelli, che si diceva a Roma fossero figli di un gladiatore, uno morì alla nascita mentre l’altro, Commodo, ragazzo bellisimo, innamorato del circo e della lotta alle belve, era completamente restio allo studio. La pestilenza ed una carestia avevano fatto di Roma una città cupa e triste e gli avevano sfiancato lo spirito. Lui, uomo di pace, fu costretto ad assumere il comando delle legioni per sedare le rivolte delle tribù germaniche in Ungheria e Romania. Si pensava che non desse affidamento come comandante di uomini ed invece si rivelò un trascinatore, amato dalla truppa che mai aveva combattuto con tanta veemenza. In sei anni domò i longobardi, i sarmati ed i marcomanni.
Stava completando in Boemia un seguito di vittorie, quando dall’Egitto gli si ribellò Avidio Cassio. Marco concluse una rapida pace con gli avversari e disse ai soldati che, se lo avessero voluto, si sarebbe ritirato dando via libera a Cassio. Tutti rifiutarono sdegnosamente e, mentre si muoveva contro Cassio, questo fu ucciso da un ufficiale. Marco rimpianse di non averlo potuto perdonare, rientrò a Roma e subì a malincuore il trionfo associandovi Commodo, ormai celebre come gladiatore e famoso per la sua crudeltà e per il suo linguaggio da bassifondi.
Per togliere questo figlio da queste insane passioni, se lo portò in Germania per l’ennesima guerra contro tribù ribelli. Ma a Vienna si ammalò seriamente, per cinque giorni rifiutò il cibo, al sesto presentò Commodo alla truppa come nuovo imperatore e morì nel suo letto. Era il 180 d.C. Avendo il senato rinunciato al suo diritto elettivo, rimase il principio ereditario e, pertanto, Commodo fu incoronato imperatore.
Inizialmente piacque perché atletico, molto bello, di appetito gagliardo, dal turpiloquio pronto e piacque soprattutto ai legionari. Ma lui voleva la pace ma solo per potersi dedicare di più al Circo. Da quel momento gareggiò con Caligola e Nerone per aggiudicarsi il titolo di “sciagura pubblica nr.1” Seminò il terrore fra familiari e collaboratori e fu ucciso da una sua concubina, Marzia, che gli fece bere una bevanda avvelenata. Era il 192 d.C. e dal quel momento iniziava la grande anarchia.
Mario La Mazza
(Generale dei Carristi)