LECCE – Parla di una possibile chiave di lettura alternativa ma nella gran parte inverosimile e sconfessata dalle dichiarazioni nuovamente rese dalla parte offesa. E nonostante un atteggiamento collaborativo dell’indagato il quadro indiziario risulta ancora grave alla stregua della esplicitata contraddittorietà tra le dichiarazioni dell’avvocato e quanto risulterebbe dalle indagini. Ecco i passaggi centrali dell’ordinanza con cui il gip Cinzia Vergine motiva il rigetto alla richiesta di revoca della custodia cautelare in carcere dell’avvocato Francesco D’Agata in carcere dal 12 ottobre scorso per una presunta truffa ai danni di una donna senegalese, vittima di un in terribile incidente stradale nel 2010 nei cui confronti il Tribunale di Trieste aveva disposto un risarcimento di 636mila euro.
Secondo le indagini condotte dagli uomini del Nucleo di polizia giudiziaria della Guardia di Finanza (diretti dal colonnello Francesco Mazzotta), l’avvocato leccese avrebbe truffato la sua cliente riferendo che il risarcimento complessivo ammontava sui 236mila euro. Il legale avrebbe anche presentato una falsa sentenza trattenendo la somma restante transitata su un conto intestato alla donna ma di fatto gestito dal professionista. Per il gip il quadro probatorio non è stato scalfito e ha superato lo step dell’interrogatorio di garanzia dell’indagato.
Il giudice, in quattro pagine, si sofferma sul contenuto della versione fornita dall’avvocato leccese noto per essere il referente dello Sportello dei Diritti (l’associazione in difesa dei consumatori) rilasciato nei giorni scorsi davanti al gip e al sostituto procuratore Massimiliano Carducci, titolare del fascicolo d’indagine. Il professionista, difeso dagli avvocati Luigi e Roberto Rella, ha fornito una propria chiave di lettura. Quale? D’Agata ha riferito che la falsificazione della sentenza del Tribunale di Trieste sarebbe stata compiuta dalla persona offesa (residente a San Cesario) ai danni del marito. Una ricostruzione che il giudice ritiene di non condividere parlando di “un’inverosimiglianza oggettiva” sulla base di una valutazione piuttosto immediata: persona offesa e marito, per background culturali e linguistici, non possono vantare alcuna competenza tecnica che avrebbe potuto consentito loro un’operazione palesemente complessa.
Il giudice, inoltre, sconfessa la tesi del legale che, in sede di interrogatorio, ha parlato di incontri avvenuti in assenza del marito per una volontà della donna senegalese “succube e timorosa del coniuge” ma per una sorta di diktat dell’avvocato che, per dirla con le parole della persona offesa, “non voleva che ai nostri incontri fosse presente mio marito o altri miei connazionali”. E sulla genuinità delle dichiarazioni della parte lesa il giudice non ha dubbi anche sulla scorta di un secondo ascolto subito dopo l’interrogatorio fiume di D’Agata. Il sostituto procuratore Carducci, titolare del fascicolo d’indagine, ha infatti ritenuto di ascoltare nuovamente la donna senegalese proprio allo scopo evidente di verificare l’attendibilità delle dichiarazioni fornite da D’Agata. L’esito ha fugato qualsiasi possibile dubbio. L’ascolto ha confermato come la persona offesa si debba ritenere una persona assolutamente attendibile. Credibile. Ora il “braccio di ferro” tra accusa e difesa si dovrebbe spostare dinanzi ai giudici del Tribunale del Riesame dove gli avvocati di D’Agata chiederanno nuovamente la scarcerazione del legale.
F.Oli.