ROMA – Enzo Iacopino annuncia le sue dimissioni dall’Ordine dei Giornalisti: la battaglia è perduta. «Il recupero della credibilità della categoria si è rivelato un vero fallimento – ha spiegato il presidente dell’Odg – L’equo compenso, una battaglia dell’Ordine tesa a dare dignità e speranza alle migliaia di “ultimi” di tante età, è morto.
Assassinato da fuoco amico! Da chi ha accettato che si codificasse il prezzo della schiavitù: 4.980 euro (tasse, spese, foto, video, abstract per l’on line) per il lavoro di un anno. Vergogna, non per chi lo impone, ma per chi tra noi se ne è fatto complice […]. Ho provato, ho tentato di evitare questa deriva legata anche a norme che consentono ad editori improvvisati non solo di maramaldeggiare sfruttando i colleghi, ma di piegare il bene primario dell’informazione ai loro interessi». Certo, ci sono piccole vittorie: ad esempio, i soldi dei giornalisti oggi vengono utilizzati con molta più parsimonia dall’Ordine, ma la battaglia per far uscire fuori migliaia di giovani dallo sfruttamento e dal precariato è perduta.
Possiamo focalizzare l’attenzione su poche immagini per capire la difficile situazione del giornalismo italiano: colleghi suicidi dopo una vita di stenti, esistenze da 5 euro a pezzo; gente che invecchia con collaborazioni ultradecennali, che alla fine fruttano solo 600-800 euro al mese; uffici stampa occulti per sbarcare il lunario; la anacronistica categoria dei pubblicisti, con altri lavori ben remunerati, che scippa il lavoro ai professionisti; eterni stagisti; lavoro gratuito per farsi notare; redazioni che chiudono e precariato che aumenta. Il mondo del giornalismo è in coma da tempo ormai per una serie di cause: sono troppe per elencarle tutte in questo articolo. Qualcuno si rifugia nei lauti uffici stampa che offre la classe politica, ma che spreco per tanti talenti. Avevamo detto che il giornalismo non era un hobby, con tanto di slogan appiccicato sui profili facebook, anche nel Salento: ci siamo sbagliati, la politica non la pensa così. Al Ministero cercano professionisti che lavorino gratuitamente: poi Assostampa protesta e ritirano il bando. Il governo Renzi non ha mai dato importanza alla faccenda: in un incontro con Iacopino, l’ex presidente del Consiglio snobbò in diretta tv l’argomento precariato e sfruttamento.
Ma il clima è questo. Per i nostri genitori era diverso: si lavorava per i soldi, non per la gloria. Oggi si aspetta Godot sacrificandosi per anni, dopo lauree, master e altre illusioni. Le mille università che pretendono di insegnare il giornalismo (alcune bene, altre male) sono una fucina di disoccupati. Alcuni si riscattano grazie al web, mettendosi in proprio, con delle cooperative o con delle associazioni, ma sono casi isolati e non sempre vincenti: i padroni dell’informazione, invece, stringono la cinghia, abbassano il livello e continuano a incassare. Ci sono delle foto che custodisco gelosamente: un incontro di circa quattro anni fa al Quirinale. Enzo Iacopino mi concesse l’onore di leggere una mia relazione sul precariato giornalistico al sud. Il presidente Napolitano e la ministra Cancellieri mi ascoltarono interessati e spiegarono che la situazione poteva risolversi attraverso una più stringente selezione: un accesso ristretto alla categoria. Parole al vento.
Carta stampata e televisioni locali annaspano, i siti web di fake news e quelli parassitari (che vivono di notizie di seconda mano o rubate) spuntano come i funghi e il diritto d’autore non esiste più. Nel Salento i moti rivoluzionari del 2012 si sono spenti tra riunioni che ormai sembravano quelle dell’«anonima alcolisti» e litigi tra colleghi. Molto rumore per nulla. Della vicenda di Canale 8, ormai, non se ne parla più: ispezioni inquietanti dell’Inpgi, indagini, interrogatori e tanti soldi non pagati sono finiti nel dimenticatoio. Eppure, quella ribellione ai soprusi che ricevettero tanti giornalisti e tecnici era la madre di tutte le battaglie. Struttati per anni con contratti di collaborazione ridicoli e giochini societari e cacciati via dopo un’ispezione dell’Inpgi. Se ne interessò perfino Teresa Bellanova con un’interrogazione parlamentare (oltre alla Procura di Lecce): il «caso Canale 8» riempì le cronache locali per un periodo e poi il colposo silenzio.
In quei mesi, prima di tornare in tv come direttore di Telerama, le mie dimissioni in diretta a Canale 8 e i miei discorsi sull’argomento furono perfino citati in una tesi di laurea, incentrata sul precariato giornalistico, discussa all’Università del Salento. Quando segnalai di persona la questione al presidente della Repubblica dell’epoca, Giorgio Napolitano, c’erano le telecamere delle reti nazionali: tutti censurarono l’argomento. I giornalisti romani preferirono riportare qualche frase banale detta da Napolitano sulla necessaria responsabilità dei giornalisti nel trattare le notizie, oppure si attennero semplicemente ai comunicati stampa: resta un mistero.
Strano che ancora non sia chiaro che un’informazione depauperata e precaria è un danno per la democrazia: un giornalista ricattabile è debole. Mentre ficchiamo giornalisti di talento nei call-center e affolliamo redazioni di mezzi stipendiati, che si accontentano di 600-800 euro, e i raccomandati dal potente di turno ce li troviamo in celebri redazioni ossigenate dal finanziamento pubblico, ricordiamoci che il giornalismo affonda. Ricordiamoci anche che, se dobbiamo continuare a erogare i contributi all’editoria, nell’era di internet, bisogna concederli anche al web, a parità di condizioni, a redazioni che fanno click e notizie di prima mano. Ricordiamoci anche che i contributi dati per sostenere la professione, come quelli del Corecom, sarebbe meglio trasformarli in sgravi totali al costo del lavoro. Tagliamo tutte le tasse agli editori meritevoli.
Parole al vento, lo so, in un tempo in cui il buon giornalismo non serve più: non interessa a chi governa, a chi ci aveva promesso una riforma seria del reato di diffamazione e tante cose non fatte. Ma la colpa è anche nostra, di una categoria giornalistica che non sa fare squadra, che non sa più combattere unita per un obiettivo comune. Sono gli anni del personalismo, dell’individualismo, della disgregazione, non solo nella politica: dove il business, come dice Iacopino, si prende anche la professione e la appiattisce, la corrode, la rende irrilevante, come un hobby, un gioco da fare gratis, mentre qualcuno si arricchisce col tuo lavoro.
Gaetano Gorgoni
ggorgoni@libero.it