Il mondo dell’informazione e della comunicazione sta cambiando a un ritmo velocissimo: il legislatore non sempre sa stare al passo con i tempi e restano troppe zone grigie in cui i furbi sguazzano. Oggi si parla di fake news, diritto all’oblio, nuove tutele per il diritto d’autore (continuamente violato da siti parassiti sul web) e si delineano nuovi confini per privacy e diritto di cronaca. Il professor Ruben Razzante, docente di Diritto dell’informazione all’Università Cattolica di Milano e autore di un aggiornato e completo Manuale di diritto dell’informazione e della comunicazione, giunto alla settima edizione, è uno dei più autorevoli studiosi della materia in Italia. Ci ha concesso un’intervista piuttosto lunga, togliendo tempo alle sue numerose attività, che svolge anche nel campo del giornalismo nazionale: lo ringraziamo per questo. Venerdì 31 marzo il professore presenterà a Lecce (alle 18, nella sede di Laica) la settima edizione del suo Manuale di Diritto dell’Informazione e della Comunicazione (Ed. Cedam – Wolters Kluwer): un prezioso strumento di conoscenza per chi esercita la professione giornalistica. La presentazione è stata promossa dall’associazione di imprenditori e professionisti Laica.
Professore, per anni abbiamo parlato del pluralismo (esterno) dell’informazione come baluardo di democrazia e ora, col web, ci ritroviamo troppi siti, che spuntano come funghi e vivono solo di false notizie, danneggiando il mercato e inquinando la «società dell’informazione». Il legislatore soffre di atrofia. Quindi, come si interviene?
«In Internet viaggia una quantità impressionante di informazioni non vagliate. L’emergenza fake news è esplosa oggi perché ci sono state di recente le elezioni americane, ma in realtà la diffusione di bufale è un fenomeno già consolidato e sul quale occorre intervenire, quanto meno per arginarlo e ridimensionarlo. Certamente, per salvare la qualità dell’informazione, occorre l’impegno di tutti, dai giornalisti agli editori ai motori di ricerca e ai gestori di social media perché la battaglia è epocale e non si può vincere solo con le leggi e i controlli».
Dicevamo della facilità con cui si apre un sito di cronaca, della possibilità di aprirlo senza un direttore registrato in tribunale da parte di chiunque. Non abbiamo esagerato un po’ lasciando a briglie sciolte un mondo pieno di furbi?
«Le leggi in questo senso sono molto chiare. L’obbligo di registrazione dei siti informativi vale solo per quelli che chiedono finanziamenti pubblici, ma ciò non vuol dire che non esistono regole e che viviamo nella giungla. Occorre semmai, anche con iniziative precise dell’Ordine dei giornalisti, individuare dei meccanismi di identificazione del lavoro dei giornalisti, cioè fare in modo che in Rete si distingua un articolo scritto da giornalisti professionisti o pubblicisti obbligati al rispetto dei principi deontologici da un articolo scritto da un dilettante o da un avventuriero o, peggio, da uno sciacallo. In che modo? Iniziando a chiedere ai giornalisti di firmarsi col proprio numero di tessera professionale: dichiarando, quindi, la propria iscrizione all’Albo potrebbe già essere un primo passo. E poi anche qualche meccanismo di certificazione della qualità dei siti potrebbe giovare, ma sono proposte che vanno affinate prima di essere lanciate, altrimenti presterebbero il fianco ad accuse di bavaglio o censura».
Un’altra problematica è il parassitismo diffuso sul web: uno lavora e trova notizie di prima mano, dieci vivono copiando notizie. Questo succede soprattutto a livello locale. Il copyright degli articoli non è più garantito. Inoltre, Google guadagna sui contenuti che non paga. Anche qui il legislatore soffre di atrofia?
«La battaglia per la protezione del diritto d’autore vede la Federazione editori (Fieg) in prima fila per quanto riguarda la difesa dei contenuti giornalistici. Google sta mostrando segnali di disponibilità negli ultimi tempi e intende contribuire alla remunerazione del diritto d’autore sui contenuti che veicola attraverso le sue piattaforme. Ho ragione di ritenere che un’alleanza virtuosa tra editori e colossi della Rete possa salvare almeno in parte il diritto d’autore sugli articoli. Concordo però con lei sulla gravità della situazione attuale, che non è semplice da gestire, stante l’overdose informativa sul web».
Parliamo di tv e stampa: siamo nel pluralismo tanto anelato, oppure sono gli stessi gruppi finanziari di sempre che hanno in mano il mondo dell’informazione e la quota di pubblicità più ampia?
«Anche le ultime vicende interne al gruppo Il Sole 24 ore confermano le commistioni di interessi nel mondo editoriale. Poteri economico-finanziari dettano da decenni nel nostro Paese le priorità dell’informazione, condizionando l’autonomia dei giornalisti. Il pluralismo in Italia è sempre stato applicato nei termini di una negoziazione permanente tra forze politiche e tra poteri non sempre trasparenti. La qualità dell’informazione ne ha risentito».
Il giornalismo vive una crisi senza precedenti, soprattutto a livello locale, il precariato selvaggio ha abbassato il livello della professione e non crea più il ricambio generazionale di un tempo. Stampa e tv, soprattutto locali, annaspano. Bisogna rassegnarsi alla morte dei vecchi organi di stampa? Resteranno solo tv on-demand e la stampa chiuderà i battenti?
«La strada da percorrere è quella delle sinergie editoriali, della convergenza multimediale. I giornalisti del futuro dovranno saper usare tutti i mezzi di informazione, essere versatili, competenti e preparati, organizzatori di informazioni e con una spiccata attitudine all’interattività con gli utenti. Altri giornali moriranno, ma la carta stampata di qualità resterà in vita accanto agli altri mezzi di informazione. Ci sarà un ripensamento globale dei circuiti mediatici e tutti dovranno riadattarsi, ma non prevedo uno sterminio di uomini e mezzi».
La tecnologia diventa sempre più invasiva nelle nostre vite: con social e telefonini diventiamo sempre più trasparenti, intercettabili e spiabili. Abbiamo veramente il controllo dei nostri dati o c’è bisogno di ulteriori interventi legislativi?
«L’Europa sta correndo ai ripari con nuove leggi per tutelare maggiormente la nostra privacy, in particolare nell’ambito della profilazione dei nostri comportamenti di navigazione. In cambio di servizi gratuiti e che ci fanno molto comodo rinunciamo progressivamente a spicchi di sovranità sulle nostre vite e sui nostri dati. E’ uno scenario che può risultare perfino inquietante ove si pensi che i colossi della Rete potrebbero presto diventare soggetti bancari e finanziari e gestire tante altre attività oltre quelle che già svolgono nell’ambito informativo e della socializzazione on-line. Ma le società fabbricheranno gli anticorpi per sopravvivere anche a questa ennesima rivoluzione, anzi per ottimizzarne gli elementi qualificanti».
Spesso capita che alcuni video (girati in situazioni intime), come nel caso Cantone, vengano inseriti nel web e diventi impossibile bloccarli per il titolare dell’immagine, che magari li aveva solo inviati a un amico su whatsapp. C’è una soluzione oppure una volta immessi dobbiamo rassegnarci al fatto che sia impossibile controllarli?
«Tutto ciò che viene diffuso in Rete diventa incontrollabile e quindi in questi casi sono molto scettico sulle azioni di contrasto o repressive. In materia di bullismo o di diffusione di video virali che portano a suicidi e gesti inconsulti da parte di persone fragili temo che capiteranno altri casi Cantone. Lì la sfida è anche e soprattutto educativa e di lungo periodo e dovrebbe iniziare nelle scuole dell’obbligo».
I tempi, secondo lei, non sono maturi per riformare il reato di diffamazione a mezzo stampa, che spesso diventa uno strumento di ricatto per intimidire una classe giornalistica sempre più debole dal punto di vista economico?
«Neppure in questa legislatura, secondo me, si riformerà il reato di diffamazione a mezzo stampa. Ci sono le querele temerarie per intimidire i giornalisti ma ci sono anche alcuni giornalisti che interpretano il diritto di cronaca e di critica come licenza di linciaggio o di gogna mediatica. Entrambi gli eccessi uccidono il diritto dei cittadini all’informazione e indeboliscono la classe giornalistica».
Secondo lei, il duopolio televisivo (Rai-Mediaset) con l’era digitale è realmente finito?
«In ambito pubblicitario persistono alcune posizioni dominanti, ma col digitale altri operatori internazionali si stanno affacciando sul mercato e parlare di duopolio mi pare alquanto inattuale».
Professore, nel suo nuovo lavoro ci sono tutti gli aggiornamenti sul complesso mondo del diritto all’informazione e della comunicazione. Quali sono le novità più importanti?
«In questa settima edizione del mio Manuale di diritto dell’informazione ho aggiornato tutta la parte relativa alla deontologia giornalistica, che nel Testo unico dei doveri del giornalista, emanato un anno fa, risulta estesa anche ai social network. C’è un capitolo specifico sul diritto all’oblio, sia nei motori di ricerca che nei siti giornalistici, un’ampia casistica sulla protezione del diritto d’autore online e parti interamente nuove in materia di privacy, diffamazione on line, tutela dei diritti nei social network, comunicazione in Rete delle pubbliche amministrazioni, spamming e tanto altro».
Ha l’impressione che si stiano facendo dei passi avanti per eliminare il gap tra “info-ricchi” e “info-poveri”, cioè tra chi ha accesso alle nuove tecnologie e le maneggia bene e chi non lo fa o non può ancora permetterselo?
«Credo che i passi siano ancora molto lenti e insufficienti. Occorre investire sul serio nella banda ultralarga, unica chance rimasta al nostro Paese per riscattarsi e tornare ad essere competitivo e attrattivo in ambito economico, produttivo e commerciale».
Professore, il diritto all’oblio è riconosciuto dalla giurisprudenza. Abbiamo ricevuto diverse lettere di avvocati che chiedono di cancellare i nomi dei propri assistiti da vecchie notizie che continuano a navigare nel web, anche se relative a processi in corso. Come deve comportarsi un giornalista? Dopo quanto tempo bisogna cancellare le condanne definitive? Bisogna cancellarle solo quando viene richiesto o di propria iniziativa?
«Nessun obbligo di cancellazione per persone ancora sotto processo. Per le condanne definitive bisogna valutare caso per caso. I giornali sono obbligati ad aggiornare i propri archivi on-line, tanto più se arrivano segnalazioni dai protagonisti degli articoli. Ma, come puntualizzo in più punti del mio Manuale, un conto è aggiornare altra cosa è cancellare la memoria storica».
Gaetano Gorgoni
ggorgoni@libero.it