di Julia Pastore
GALLIPOLI – Chi dice che nel 2017 c’è poca fede cristiana evidentemente non è mai stato a Gallipoli, durante la processione del Venerdì Santo. Siamo nel cuore del centro storico e per trovare la processione basta lasciarsi guidare dal suono malinconico che promana dalle labirintiche viuzze: è il suono della tromba, accompagnata dal tamburo e dallo stridere metallico della “trozzula”, in sostituzione delle campane, che cessano di suonare dall’Ultima Cena sino alla Resurrezione di Cristo.
La processione prende l’avvio dalla Chiesa del Santissimo Crocifisso, sede dell’omonima Confraternita organizzatrice del rito pasquale. I Confratelli, col loro saio rosso, mozzetta celesta con le effigi di San Michele Arcangelo e dell'”Ecce Homo”, cappuccio rosso che compre completamente il volto, cingolo blu e corona di spine, accompagnano per le strade della città le statue dei Misteri. Partecipano anche i confratelli di Santa Maria degli Angeli (tunica e cappuccio bianco, cordone azzurro, mozzetta celeste con macchiette che raffigurano la Vergine e Sant’Andrea), che accompagnano la statua della Madonna Addolorata. Da alcuni bassi balconcini le donne si affacciano e sono così vicine da poter toccare e baciare la statua, i cui capelli sono veri, in quanto donati dalle devote.
Ma ciò che colpisce subito sono i penitenti a piedi scalzi: c’è chi si flagella con la “disciplina” (una sorta di frusta fatta di fasce metalliche), chi porta il peso del peccato caricandosi due pietre al collo, le “mazzare” o “pisare”, una sul petto e l’altra sulla schiena, chi chiede una grazia portando sulle proprie spalle la possente croce. Qualcuno li chiama impropriamente incappucciati: a Francavilla sono i famosi pappamusci. In realtà, i penitenti si coprivano il volto per non rivelare la loro identità, visto che attraverso questo rito si punivano per i peccati commessi: la tradizione è rimasta intatta.
Tanti fedeli partecipano con commozione e grande devozione. Il lento procedere scandito ora dalla tromba ora dalla banda conduce alla Cattedrale di Sant’Agata, dove la folla di fedeli, turisti e curiosi assiste rapita di fronte alle suggestioni di un rito religioso che affonda le sue radici nei secoli.
Quanta emozione poi in un distinto novantenne in abito scuro e cravatta, commosso nel momento dell’uscita della processione dalla Cattedrale, alla quale assiste per la prima volta da solo, dopo la morte della moglie con la quale ha condiviso settant’anni di matrimonio. È lì, gli occhi lucidi dal dolore, perché solitario assiste ad un rito che è parte dell’identità di ogni cittadino di Gallipoli, da condividere con chi si ama ma anche con chi per caso è capitato accanto a te nella folla. Chiuso nel suo dolore, si sente quasi in difetto nell’essere presente e per questo preferisce restare in disparte rispetto a chi scalpita per avvicinarsi alle statue.
Dalla Cattedrale, la processione muove verso la città nuova, per fare ritorno nel cuore della notte; ma già alle tre del mattino parte la seconda processione, quella della Desolata, organizzata dai confratelli della Chiesa di Santa Maria della Purità.
Passo dopo passo, arriva il mattino: alle 10 il sole è già alto per la benedizione del porto. La Madonna Desolata è rivolta verso il mare, Don Piero benedice per sua intercessione e i pescherecci ringraziano col prolungato suono delle loro sirene.
La processione culmina davanti alla Chiesa della Purità, dove ha luogo l’ultimo incontro fra il Cristo morto (l’Urnia) e la Madonna, Desolata ma non disperata, perché dalla Croce viene la resurrezione.