GALLIPOLI (Lecce) – Ucciso e sciolto nell’acido, poi cementato in un bidone ed abbandonato in aperta campagna. Tutto per una partita di droga non pagata.
Si è chiuso in mattinata il cerchio sull’omicidio del marocchino Khalid Lagraidi, il cui cadavere fu ritrovato occultato nei campi in contrada “Madonna del Carmine”, a Gallipoli, il 31 gennaio scorso: i carabinieri, infatti, hanno arrestato il principale sospettato, il 44enne gallipolino Marco Barba, ex collaboratore di giustizia, attualmente detenuto presso la casa circondariale di Bari.
Le indagini dei carabinieri scattarono a seguito delle dichiarazioni accusatorie rilasciate dalla figlia Rosalba Barba che, la notte del 31 gennaio scorso, si recò in caserma rivelando ai militari i particolari inquietanti e cruenti relativi alla scomparsa del giovane marocchino, di cui si erano perse le tracce dal giugno precedente. Un omicidio – confessò – cui la stessa ragazza aveva preso parte, aiutando il genitore ad occultare il cadavere dello sfortunato Lagraidi.
L’omicidio si consumò il 23 giugno 2016 nelle campagne alla periferia di Gallipoli. Dopo avere raggiunto Lecce (città di residenza del marocchino) per prelevare con un pretesto Khalid, i tre raggiunsero contrada “Madonna del Carmine”, dove avvenne l’esecuzione. E dove padre e figlia soppressero il cadavere del marocchino, cospargendolo con l’acido contenuto in un centinaio di bottiglie, che erano state acquistate di proposito, e cementarono il suo corpo all’interno di un fusto, nascondendolo poi tra le sterpaglie. Il sopralluogo dei militari confermò le agghiaccianti confessioni della donna: all’interno del bidone c’era proprio il cadavere del marocchino.
Le indagini degli investigatori dell’Arma, nonostante la confessione della figlia dell’ex pentito, non si fermarono. E, analizzando tabulati telefonici e le varie celle telefoniche agganciate dai cellulari del Barba, trovarono conferma alle parole della donna: tra il gallipolino e la vittima vi erano stati contatti telefonici anche il giorno della scomparsa dello straniero. Il cellulare di Barba, inoltre, aveva agganciato le celle telefoniche comprese nel tragitto tra Gallipoli e Lecce, andata e ritorno. Proprio come confessato dalla figlia Rosalba, che aveva raccontato di essere andata col genitore a prelevare da casa l’uomo con cui aveva una relazione sentimentale.
Fondamentali si sono rivelate anche le intercettazioni ambientali eseguite durante i colloqui carcerari a Bari, da cui emergerebbe la premeditazione dell’omicidio del marocchino, con l’acquisto da parte del Barba delle 100 bottiglie di acido da utilizzare per scioglierne il corpo e del bidone in cui occultarlo. Intercettazioni che avrebbero fatto emergere anche il movente della spietata esecuzione: Lagraidi non aveva pagato una partita di droga. Nonché la sua modalità, differente rispetto a quanto lo stesso Barba aveva riferito alla figlia la sera dell’omicidio: il povero Lagraidi non fu strangolato, ma colpito più volte alla testa con un oggetto contundente. Particolari confermati dall’autopsia eseguita sul corpo della vittima e che solo l’assassino poteva conoscere.
Marco Barba, alias “U Tannàtu”, ritenuto elemento affiliato alla Sacra Corona Unita e facente parte del “Clan Padovano”, operante in Gallipoli e comuni limitrofi, ha già scontato una pena di 23 anni di reclusione per un altro omicidio commesso quand’era ancora minorenne, intraprendendo successivamente una collaborazione con la giustizia interrotta poco tempo dopo. È ristretto nel capoluogo regionale dallo scorso 3 dicembre con le accuse di tentata estorsione, porto e detenzione di armi comuni da sparo e stalking ai danni del consigliere Sandro Quintana.
Marco Barba dovrà rispondere di omicidio aggravato dalla premeditazione e dai motivi abietti e futili, nonché di distruzione e soppressione di cadavere.
C.T.