Tiziana Buccarella: una leccese che conosce i leccesi. Non ne svela tutti gli arcani nelle sue ultime apparizioni pubbliche, ma riesce a coglierne i tratti tipizzanti, specifici, reconditi, loro propri. Con gentilezza li denuda senza tuttavia suscitare vergogna, ma accettazione pacifica e naturale di quelle nuance, dei leccesi appunto, che marcano i puri del capoluogo salentino.. Dai leccesi, tuttavia, Tiziana si distingue quanto a classe. D’altro canto è una donna che, già negli anni ’80, ha sperimentato scenari importanti, impegnativi, difficili e competitivi, quali quelli del teatro romano. Peraltro, ha conosciuto e lavorato con Fellini. E tutto ciò per seguire la “pazzia del proscenio”, la “schizofrenia” dell’attrice, che ama smisuratamente, più che come professione, come possibilità esistenziale. Vive per re-citare, appunto, e tutto il resto, a parte l’amore, forse per lei è noia.
L’ho vista per la prima volta, lo scorso maggio, al Festival delle Arti e delle Scienze, organizzato da un gruppo di associazioni tra le quali la Vitruvio, capeggiata da Enrico Romano. Di lei, subito m’ha colpito la camminata. Deambulava con la grazia e la leggerezza di chi porta con sé un animo sensibile, ricco, aristocratico. Poi, la sua performance: perfetta, di chi possiede il mestiere dentro, anche se, qui e lì, imbarazzi e imprevisti fastidiosi, che non le hanno impedito di mostrare la sua portata artistica. Sicché, l’ho voluta conoscere. Dunque, un caffè, da lei, nel suo attico -nella parte nuova di Lecce- accogliente e ricco di particolari di chi pratica l’arte. Ed ecco, che scopro, con un certo stupore infarcito di imbarazzo, che Tiziana è una veterana del teatro leccese. I suoi esordi, dopo l’esperienza romana, presso Astragali, quando era diretto, sul finire degli anni ’80, da Carla Petrachi e Marcello Primiceri. Da qui, una carriera, la sua, lunga, che non s’è potuta sottrarre alle alterne vicende di un’esistenza ricca di esperienze ed emozioni di varia caratura e segno. In ogni caso, Tiziana, dal 2008 calca correntemente le scene leccesi in vari spettacoli, di cui lei, sovente, scrive i copioni. Ma scrive anche poesie, belle, in cui l’impellenza creativa si percepisce dal ritmo dei suoi versi, sempre sostenuto e capace di creare atmosfere di rara eleganza e raffinatezza.
Nel 2016, Tiziana ha messo in scena Maria d’Enghien – Omaggio ad una donna di tutti i tempi. Un monologo di circa un’ora, le cui intenzioni culturali vanno al di là del momento teatrale, per dare un contributo alla rivalutazione e alla scoperta della storia locale. Naturalmente, il copione, molto interessante sotto il profilo letterario, l’ha composto la cara Tiziana, che a me sembra che, con la passione di un’adolescente, ami moltissimo la sua Lecce, sia pure nell’ineffabilità delle sue essenze.
Maria D’Enghien, a partire da luglio scorso, è stata rappresentata al Teatro Romano, al Paisiello ed in altre location di prestigio, anche nella Capitale, dove, in ogni occasione, Tiziana ha riscosso un significativo successo di pubblico. Ed in effetti, sebbene lei non lo ammetta, ha un suo pubblico, un suo seguito, che la ama e la segue. Naturalmente, si sa, Lecce in ciò è abbastanza avara, riservata, reticente.
Con Tiziana, durante la nostra con-versazione, abbiamo anche toccato temi più generali, riguardanti la situazione del teatro leccese, che a suo dire attraversa una fase di autoreferenzialità, di scarsa comunicazione. E tutto ciò pare ricollegarsi all’andamento più generale del mondo dello spettacolo, della cultura e dell’arte leccese, che sembra stia attraversando una fase di grande espansione, ma solo a livello quantitativo, i cui tratti non paiono ancora ben delineati e dove tutto si risolve in un fare senza intenzioni culturali, forse anche politiche, intese nel senso più nobile del termine.
Al di là di tutto ciò, credo che Tiziana Buccarella, donna oramai matura e dotata di un fascino misterioso, tipico delle “étoile”, sicuramente in un prossimo futuro saprà dare al teatro leccese, con la sua penna e con la sua parola, un contributo capace di divincolare questo mondo dagli incagli della massificazione.
Mauro Ragosta