di Julia Pastore
CASTRO (LECCE) – Per la seconda volta nel giro di due anni al castello aragonese di Castro, il professore, giornalista e filosofo Marcello Veneziani è stato invitato dall’amministrazione comunale della città, lo scorso giovedì 20 luglio, per affrontare il tema dell’identità. Identità che può assumere diversi connotati: personale, popolare, nazionale, politica, culturale. La “lectio magistralis” è stata moderata dal giovane neoeletto vicesindaco di Castro, Alberto Capraro.
Secondo il professore, noi ci accorgiamo di avere un’identità quando la stessa è in pericolo ed oggi ogni tipo di identità è minacciata dall’epoca odierna, che lui definisce: “globalitaria”, mettendo insieme i termini “globale” e “totalitaria”: <<Viviamo un’epoca in cui il legame con le tue origini, con ciò che tu sei, la storia e la tradizione da cui provieni, la famiglia, i riferimenti naturali e culturali che connotano la tua esistenza, sono ritenuti irrilevanti o meritevoli di essere superati. Siamo dei soggetti mutanti, quindi l’identità non ha più quel peso che poteva avere nelle società statiche, perché nella società del divenire e del movimento viviamo sempre in transito; altro tratto fondamentale della nostra epoca è il primato della tecnica: il fatto che il mondo possa essere manipolato attraverso la tecnica, inevitabile fattore di disintegrazione delle identità. A questo si aggiunge l’ossessione dello sconfinamento, una nuova ideologia oggi presente in quasi tutti i “mass media”: è l’ossessione di superare a tutti costi i confini, abbattere i muri, liberarsi dalle soglie, trasgredire, tutti fattori di una ideologia fondata sulla dismisura.
E tutto ciò che sconfina rifiuta un’identità, perché l’identità, al contrario, nasce dalla capacità di stabilire dei lineamenti, dei contorni e quindi di definire. E definire inevitabilmente è contrario alla smisuratezza. L’identità personale è la prima soglia di pericolo che noi avvertiamo: noi viviamo un’epoca fortemente individualista, atomistica, in cui regna un egocentrismo cosmico, un narcisismo planetario, un’epoca non a caso fondata sul “selfie”, perché ormai non fotografiamo più il mondo ma noi stessi al centro del mondo. Ma identità personale significa che io ho un’origine, che il mio rapporto con la terra da cui provengo non è casuale ma è di destino, è fatale, io sono figlio di quella terra, quindi i miei tratti somatici, i tratti che identificano me, assumono una valenza importante in una cultura identitaria, laddove invece la cultura dello sconfinamento, del “trans” e della mutazione, è una cultura fondata sull’insofferenza verso l’identità.
Lo stesso discorso vale per l’identità territoriale: quando si cerca di trasformare il mondo in una periferia globale, in cui trovi tutto dappertutto uguale, abbiamo già rinunciato all’identità e abbiamo preferito la standardizzazione universale, l’uniformità che produce l’azzeramento di ogni identità, di ogni peculiarità che riguarda un terreno, un popolo, una nazione, una civiltà, perché tutto è intercambiabile.
Si parla oggi di cultura fondata sul “pensiero unico”, ma io ritengo che questo sia un ossimoro, perché il vero pensiero è inevitabilmente critico, divergente, conflittuale, fondato sulla differenza e sulla diversità; laddove invece il pensiero si uniforma, smette di pensare, diventa solo conformismo puro, e questo implica la perdita delle identità. Una delle paradossali conseguenze di tale perdita è che viviamo una società che si indigna di fronte ad un ortaggio geneticamente modificato e viceversa esalta l’uomo geneticamente modificato, inquadrandolo nel segno della modernità.
Badate bene che parlare di identità non significa alludere a una fissità che è fuori dal tempo: noi siamo inevitabilmente modificati dal tempo, ma c’è qualcosa in ognuno di noi che dovrebbe resistere al fluttuare del tempo e quella è la nostra identità, e quell'”imprinting”, quel marchio che resta dentro ognuno di noi, è tradizione nonostante la vita sia un continuo divenire. Se tutto si cancella di noi, se accettiamo questo, smettiamola di definirci uomini: uomo è chi ha anche fedeltà ad un destino, chi ha un senso della continuità, chi capisce che esistono i cambiamenti, ma ci sono anche ritorni, perché il mondo è fatto di viaggi, ma è fatto anche di ritmi che tornano periodicamente, di estati che si alternano agli inverni, di fioriture e di declini. Allora il cambiamento lo possiamo concepire solo se abbiamo un punto fermo, che è l’identità.
A mio avviso l’unica, spiccata identità che ci pertiene riguarda l’identità nazionale, che esiste e resiste: esiste come lingua, come cucina, come turismo, come legame con la terra, come architettura, come arte. Infatti la forza del nostro Paese è proprio la ricchezza culturale: le nostre bellezze, dalla Basilica di Santa Croce al piatto di “ciciari e tria”, sono assolutamente imparagonabili a quelle degli altri. E noi dovremmo partire proprio da questi elementi identitari, che caratterizzano la forza del nostro Paese. Noi dovremmo partire dalla capacità di trasmettere cultura, dovremmo avere una cultura conservatrice nel senso oppositivo della parola, invece qui se vuoi insultare qualcuno gli dai del conservatore. Da noi sono possibili i conservanti ma non i conservatori. Dobbiamo invece avere la sensibilità di amare le cose che durano, di avere gioia per la propria identità, di conservare il nostro patrimonio. Oggi siamo qui non a caso in un luogo straordinario, il castello aragonese: questo castello, il Colosseo, la costiera amalfitana non sono trasferibili, per questo siamo fortunati. Invece l’economia, le conoscenze tecnologiche, dei capitali finanziari li puoi trasferire. È una forma di ricchezza amare la propria identità>>.
In linea con la trattazione di Veneziani, il vicesindaco Alberto Capraro ricorda che a Castro è stata di recente ritrovata la statua (o meglio, solo il busto) della dea Minerva, e mette l’accento su quanto l’aspettativa di tutti i cittadini castrensi e dei visitatori sia quella di trovare anche la testa, non solo per un fattore estetico, ma proprio per continuare la ricerca delle tradizioni, in nome della propria identità territoriale e culturale.
A seguire, una chiosa di Veneziani alle parole del vicesindaco: <<Non è un caso che Minerva, dea della Sapienza, abbia perso la testa: a me sembra la metafora della nostra condizione contemporanea. Giustamente non si trova la testa, perché in una società che ha perso la voglia di pensare, la dea della Sapienza non può concedere la propria testa. Quindi cominciamo a pensare, a leggere e riflettere, la testa poi si troverà!>>.
A dialogare con il giornalista, anche il filosofo Mario Carparelli, che sollecita Veneziani su alcuni punti, in particolare sui flussi migratori che investono le nostre coste mediterranee. A tal proposito, Marcello Veneziani parte da un’osservazione realistica: se tali flussi arrivano in modo incontrollato e irregolare, seguendo ritmi che non attengono alla nostra capacità reale di accogliere ed integrare, allora diventano causa di disordine. Secondo il giornalista, anche nella concezione della solidarietà e della carità si deve inevitabilmente essere selettivi: e così evoca l’esempio evangelico di San Martino, il quale divide il proprio mantello in due, con un povero: se l’avesse dovuto dividere in ventidue, sarebbero morti di freddo tutti e ventidue. Sarebbe quindi ragionevole ed opportuno filtrare il fenomeno migratorio.
Ancora una volta, Marcello Veneziani ci regala dei rilevanti spunti di riflessione sul futuro.