Comunicare è da sempre un bisogno innato dell’uomo. Comunicare vuol dire trasmettere il proprio pensiero, le proprie emozioni, sentimenti, paure, disagi all’altro. Comunicare vuol dire libertà di dare voce all’interiorità, all’intimità dell’animo, senza vincoli o freni.
Oggi lo si può fare, velocemente, con un sms, una e-mail, semplificando il messaggio, riducendo il numero dei caratteri, sostituendo la lingua parlata, spesso sintetica e veloce, alla lingua scritta, colorandola di segni di punteggiatura, faccine e quant’altro per darle il tono di un dia-logo, che, a volte, si risolve in un mono-logo.
La scrittura diventa così comunicazione immediata, svuotata di accorgimenti stilistici, di creatività, di trasporto. Viene meno il fascino della lettera, la sua magia, il lento scrivere, pensato e affidato alla parola scritta, la sensazione della carta tra le mani, il suo profumo, la calligrafia che identifica, l’attesa di una risposta, la sua custodia nel cassetto, del comodino e del cuore.
“Lettere a mio figlio” è il frutto di un concorso letterario, indetto da Historica edizioni in collaborazione con il sito Cultora, in cui sono state selezionate lettere in lingua italiana e inedite, scritte da un genitore e indirizzate ad un figlio: “Ancora oggi, nell’era della digitalizzazione terrestre, è impossibile trovare un metodo di comunicazione più efficace della lettera. Sarà forse proprio perché il contatto con carta e penna, o con i tasti di una macchina da scrivere, resta inimitabile che solo attraverso le missive è possibile comunicare le emozioni più vere”.
Gli autori di questa antologia, come immersi in un’atmosfera ormai lontana, raccontano vicende reali o di fantasia, uniti però da un filo conduttore: essere genitori.
E i destinatari delle lettere sono i figli: neonati, ormai adulti, mai nati, immaginati o sognati : “ (…) In barba all’immediatezza delle chat e delle emoticon, il lascito emozionale al termine della lettura è di una potenza disarmante”.
Tra le lettere, tutte coinvolgenti, è stata selezionata anche quella di Monica Rizzello Bortone, 25 anni, di Taranto, laureata in Scienze dell’informazione editoriali a Bari, appassionata di scrittura, che scrive a Georgiana, la figlia che deve ancora nascere.
Perché Georgiana?
Georgiana è un nome che mi è piaciuto da quando l’ho scoperto nella lettura de “ La duchessa”, biografia di Lady Georgiana Spencer-Cavendish, duchessa del Devonshire e antenata di Lady Diana, vissuta nell’Inghilterra del 1700. Mi piacciono i nomi poco diffusi, non stranieri nella grafia e nella pronuncia e, per me, ‘Georgiana’ rispetta entrambe le condizioni.
Nella tua lettera scrivi: “Se potessi scegliere dei doni da porre nella tua culla, essi sarebbero la curiosità, la felicità e la salute, in quest’ordine”.
L’ordine dei ‘doni’ non è casuale, l’ho pensato proprio così perché, essendo una persona molto curiosa, so cosa deriva dalla curiosità, la conoscenza che si acquisisce. Partendo da qualcosa che non so, è la curiosità a darmi la molla, a spingermi ad approfondire qualunque cosa mi interessi, ad imparare sempre di più. La felicità è il dono che occupa il secondo posto, sperando che Georgiana capisca ciò che la renda felice e possa trovarlo. In chiusura la salute, perché non può mai mancare l’augurio che tutto vada bene e che essa la accompagni in ogni momento della sua vita. Potrà sembrare un ordine strano, specialmente per un genitore, che pone al primo posto la salute di un figlio, ma l’ho pensato così molto probabilmente perché non ho ancora figli, e quindi non posso capire per davvero cosa significhi.
Perché hai scelto di scrivere ad una figlia?
Il contenuto della lettera è (anche) la somma di quello che ho pensato, di come mi sono sentita, in occasione della nascita di Antonio, figlio di una coppia di amici. Ho buttato giù i miei pensieri e credevo sarebbe finita lì, non avevo idea che qualche mese dopo mi sarei imbattuta in questo concorso. Andando a riprendere quei pensieri, ne ho aggiunti di nuovi e, prima che me ne rendessi conto, stavo scrivendo rivolgendomi ad una Lei. Sarà una preferenza? O forse un desiderio, visto che sono cresciuta circondata da maschi.
Cosa significa scrivere per te?
La scrittura è qualcosa che mi rilassa, mi libera, nel bene e nel male, una terapia senza costi.
Preferisco scrivere nella maniera tradizionale, con carta e penna, perché sono strumenti che mi rassicurano, li posso toccare e li sento presenti, non pesano affatto e posso portarli dovunque.
Ho notato che tendo a scrivere quando sono triste, e quando sono felice, vivo: in questo senso ho fatto mie le bellissime parole di Pirandello, quando diceva che “la vita o si vive o si scrive”.
Per me la scrittura ha avuto un ruolo di formazione, aiutandomi a esprimermi meglio, a dire cose che probabilmente non sarebbero venute alla luce in altri modi, è una vera e propria valvola di sfogo. Mi ha aiutata ad essere più decisa: una volta messo nero su bianco, tutto appare migliore.
E continua tuttora ad avere questo effetto su di me.
La scrittura sa essere forte, potente, quanto la parola. Smuove pensieri, sentimenti, emozioni. Trascina. Tocca le coscienze. Ed è con questo mezzo che Simone De Beauvoir in ‘Memorie d’una ragazza perbene’ ci dice: “La scrittura esige virtù scoraggianti, sforzi, pazienza; è un’attività solitaria in cui il pubblico esiste solo come speranza”.
Flavia Carlino