GALLIPOLI (Lecce) – Ergastolo anche in secondo grado. La Corte d’assise d’appello di Lecce (Presidente Vincenzo Scardia) non concede sconti e conferma il carcere a vita a Marcello Padovano, 54enne di Gallipoli, ritenuto il mandante dell’omicidio di Carmine Greco. I giudici si sono così allineati alla richiesta invocata dal sostituto procuratore aggiunto Giampiero Nascimbeni. E’ stata anche confermata anche la provvisionale di 100mila euro per l’allora convivente della vittima e la figlia della vittima, assistite entrambe dall’avvocato Silvio Giardiniero. Il deposito delle motivazioni è previsto per i prossimi 90 giorni. Subito dopo l’avvocato difensore Gabriele Valentini proporrà ricorso in Cassazione convinto dell’inattendibilità delle dichiarazioni fornite nel corso delle indagini dai fratelli Barba. E’ diventata, invece, già definitiva la sentenza di condanna a 23 anni di reclusione per l’omicida reo confesso Nicola Greco, 47, di Lecce, (difeso dagli avvocati Ladislao Massari e Mario Coppola). Sempre per lo stesso omicidio sono diventate definitive le condanne all’ergastolo per il presunto boss Pompeo Rosario Padovano come mandante e a 18 anni per l’altro killer, Carmelo Mendolia.
Greco venne ucciso a soli 27 anni nell’estate del 1990 nei pressi di un uliveto di via Scalelle alla periferia della città bella davanti agli occhi della compagna e della figlioletta. Il Tribunale della mala sentenziò la morte del giovane perché Grevo voleva vendere droga in proprio. Uno sgarro che, a quei tempi, si pagava a caro prezzo. Anche con la morte. Nel corso dell’istruttoria di primo grado sono stati sentiti anche il collaboratore di giustizia Giuseppe Barba e Pompeo Rosario Padovano (altro presunto mandante) che hanno alzato il velo sulle dinamiche e le modalità dell’omicidio. Sono state poi depositate le deposizioni di Carmelo Mendolia. Il killer assoldato dal clan riferì agli inquirenti che erano stati eseguiti alcuni sopralluoghi per sondare il terreno, capire il momento in cui agire per poi affondare l’agguato decisivo.
Sospesa in un limbo giudiziario è rimasta a lungo la posizione del collaboratore di giustizia Giuseppe Barba. Il dichiarante gallipolino, ascoltato in aula come teste, confessò di aver custodito l’arma utilizzata per compiere l’omicidio salvo poi ritrattare quella stessa versione che giocoforza lo aveva messo in una posizione piuttosto scomoda. Nei suoi confronti, però, non è mai stato avviato alcun procedimento.
F.Oli.