I primi venti anni del secolo XVII sembrano essere, per la Provincia di Terra d’Otranto, alquanto floridi, almeno sul piano commerciale, in particolar modo grazie alla cospicua presenza di mercanti veneziani. Questi utilizzavano i porti pugliesi sin dai tempi dei Normanni ed avevano goduto di particolari privilegi come alcune esenzioni da tasse e gabelle ed altri diritti relativi al commercio. Le navi veneziane imbarcano in Puglia diversi prodotti quali olio, grano, vino, lana, legumi, formaggi, uva, fichi, cera grezza e bovini mentre, in senso contrario arrivano tessuti, vetri, pietre da costruzione, cere lavorate, carta e libri. Agli inizi del secolo, nella sola città di Otranto sono presenti ben 9 esportatori di olio veneziani su 21. La stessa è anche sede di un consolato veneziano, dal quale dipendono i viceconsolati di Taranto, Brindisi, Lecce e Gallipoli. Un altro è presente in Trani. Anche a Lecce la presenza dei mercanti veneti, già abbastanza consistente nel XVI secolo, si amplia.
Dopo il 1619 la situazione generale di Terra d’Otranto subisce una violento tracollo di carattere economico che, in pochi anni, la porterà ad essere, insieme alla Calabria, una delle province più povere del regno. La principale causa della débacle deve attribuirsi allo spostamento degli interessi commerciali verso l’area atlantica, prediligendo le rotte commerciali in direzione delle colonie americane e riducendo sensibilmente quelle dirette verso l’Oriente, che avevano fatto la fortuna dei porti pugliesi nei secoli precedenti. A questo si aggiungono le particolarità del governo spagnolo che non favorisce lo sviluppo, anzi, contribuisce in maniera determinante all’impoverimento generale. Specialmente le aree meridionali della provincia, a differenza di quelle della Murgia, subiscono i danni maggiori. La corona, infatti, perde progressivamente il controllo del paese, a vantaggio del potere feudale, si assiste dunque ad un decentramento del potere. Conseguenze di ciò sono l’esclusione dei funzionari pubblici dalla gestione dei feudi, la rinuncia a porre un freno al contrabbando, l’impossibilità ad utilizzare provvedimenti di ordine pubblico contro le comitive di banditi al servizio dei signori. Inoltre, la corona è costretta a svendere le zone franche, concedendole in feudo, al punto che in tutto il regno, negli anni compresi fra il 1590 ed il 1675, il numero complessivo di nobili passa da 588 a 927, specialmente nei titoli di principe, marchese, duca e conte. Meno sensibile è l’aumento dei baroni.
I contadini salentini più che vivere, sono costretti a sopravvivere, basando tutta la loro esistenza sulla coltivazione di un misero fazzoletto di terra, dal quale ricavano grano, vino ed olio per sfamare un’intera famiglia. Leggermente diversa è la situazione nelle zone della Murgia, dove il reddito pro capite è largamente superiore, mentre un’eccezione è rappresentata dalla città di Gallipoli che basa la sua economia sul commercio e, pertanto, si registra l’ascesa di una classe borghese strettamente collegata ai traffici ed ai mercati. A tutto questo si aggiunge anche la caratteristica insalubre del territorio costiero nei tratti Brindisi – Otranto e Taranto – Gallipoli, caratterizzati da paludi che molto spesso si rivelano ricettacolo della malaria, nonché il rischio costante di sbarchi da parte di predoni turchi. Tali insidie spingono i salentini ad allontanarsi dalla costa, lasciando una fascia di terra incolta in prossimità del mare ed andando a popolare centri piccolissimi e molto vicini fra loro. Nel 1663 la provincia subisce un depauperamento territoriale poiché perde la città di Matera che passa alla Basilicata.
Sotto il profilo dei costumi si diffondono, presso le classi elevate, modelli di comportamento denominati, nel complesso, spagnolismo, in cui sarebbero inclusi modi di fare altezzosi ed arroganti. Ad esso sarebbero riconducibili alcuni modelli comportamentali come l’utilizzo, nel linguaggio, di titoli quali eccellenza, magnificenza, signoria, don, vostra signoria, oppure il lusso esagerato nel vestire e l’eccessiva pompa da parte della servitù nei confronti del signore. Anche in campo artistico si manifestano le stesse caratteristiche di apparenza che trovano la loro manifestazione nel Barocco, un’arte ricca di immagini e di allegorie che riempiono le facciate degli edifici. A Lecce tale stile esplode in una forma differente rispetto ad altre città, complice quel tipo di pietra, detta leccese, un calcare con caratteristiche di consistenza ma anche di facile lavorabilità e dai toni caldi e dorati che, sotto lo scalpello e la fantasia dell’artista, prende forma, portando i frontoni dei palazzi e delle chiese ad arricchirsi di scene tratte dalla mitologia classica o dai testi sacri, uniti a motivi floreali, blasoni ed altro, in un tripudio di immagini e chiaro scuri. Massimo esponente del Barocco Leccese fu Giuseppe Zimbalo detto lo Zingarello (1620-1710) che realizzò la facciata inferiore del convento dei Celestini, il duomo, fra il 1659 ed il 1670 su richiesta di Monsignor Luigi Pappacoda, la chiesa del Rosario nel 1691, ed infine adattò la colonna terminale della Via Appia, donata dai Brindisini, destinata a sorreggere la statua di Sant’Oronzo nel 1666. Altri esponenti di tale corrente artistica furono Giuseppe Cino, Gabriele Riccardi, Gustavo Zimbalo, Cesare Penna, Mauro Manieri, tutti artisti locali.
In contrasto con la povertà della provincia, Lecce si eleva al rango di capitale, non soltanto provinciale, bensì di tutta la regione poiché in essa vengono collocati gli uffici amministrativi dello Stato. In tal modo si delinea la presenza di una burocrazia formata da giudici, avvocati, impiegati, notai, ragionieri, gabellieri, militari, con un seguito di dipendenti. A questi si aggiunge l’elevata schiera di ecclesiastici che, negli anni compresi tra il 1630 ed il 1640, arriva ad essere pari al 13% della popolazione totale. L’altro polo del potere, invece, rappresentato dalla classe nobiliare che nel 1620 raggiunge il 5,71% degli abitanti. Eppure è proprio la necessità di costruire palazzi civili o religiose per i suddetti personaggi, a richiamare un elevato numero di muratori, scalpellini ed altri artigiani dalla provincia. Tuttavia, con l’esaurimento della spinta relativa all’edilizia, Lecce non riesce a stimolare più nessun impulso verso la produzione. Città tipicamente spagnola, essa divenne l’alea Neapolis, l’altra Napoli, una città che se da un lato si arricchiva di palazzi e chiese, dall’altro andava progressivamente perdendo risorse
In conclusione possiamo affermare che, nella Terra d’Otranto del XVII secolo, esiste un netto contrasto fra la provincia, alquanto povera, ed il capoluogo ricco dove si manifestano le arti, si crea cultura, con abbondante circolazione di denaro, almeno sino a quando non sopraggiunge la crisi. Tuttavia, tali ricchezza e splendore si fondano essenzialmente sulla formalità e l’apparenza. Lecce, la seconda città del Regno, la capitale del Barocco, la Città Sacra, il trionfo dell’arte e dell’edilizia ecclesiastica e civile, al punto da rivaleggiare con la stessa Napoli, è anche una città di contrasti poiché attira flussi di gente disperata dalla provincia e la sfrutta, svolgendo un ruolo parassitario sulle loro miserie.
Cosimo Enrico Marseglia
(Tratto da T. Filomena-C.E. Marseglia, Attacco a Maruggio 13 giugno 1637 Cronaca di una giornata di pirateria turca, Apulus, Maruggio, 2010)