«In realtà, ciò che noi, preparati dalla cultura, chiamiamo sublime, […] è per l’uomo rozzo semplicemente terribile. Questi, in quelle manifestazioni dell’impero devastatore della natura e della sua grande potenza, di fronte a cui il suo potere si riduce a niente, non vedrà che il disagio, il pericolo, l’affanno, che colpirebbe l’uomo che vi sarebbe esposto».
(Immanuel Kant, “Critica del Giudizio”)
«Occorre ricominciare a credere ed investire nella bellezza», direbbe Vittorio Sgarbi, eminente storico dell’arte divenuto in tempi recenti leader di “Rinascimento”, un movimento che deve la sua genesi alla necessità imprescindibile di «operare , attraverso iniziative politiche, sociali e culturali, per una rinascita del Paese, promuovendo i beni artistici, architettonici, ambientali e paesaggistici». Una lectio magistralis, quella sgarbiana, che, tuttavia, ci era già stata tramandata dai Greci e dai Latini, i quali, pur non giungendo quasi mai ad attingere alla dimensione soggettivistica e al carattere morale dell’esperienza estetica, riuscirono, tuttavia, a porsi come anticipatori e teorizzatori dell’ urgenza, sorta nella società attuale, «scaraventata» heideggerianamente in una condizione di bellum omnium contra omnes, di coniugare l’odierno progresso scientifico alle sensibilità artistiche, etiche e politiche del passato.
L’ambito speculativo del sapere umanistico risalente alla classicità ha permesso, infatti, sul piano metodico, di anticipare in potenza le conquiste della contemporaneità, avendo fatto sorgere domande, dubbi ed istanze che la sola dimensione empirica e sperimentale del sapere non sarebbe stata in grado di chiarire: dietro la contemporanea concezione della medicina sperimentale e diagnostica, ad esempio, vi è la riscoperta di Ippocrate, così come, per merito della filosofia pitagorica, che trasformò l’indagine geometrica in una disciplina liberale, si possono investigare i principi dall’alto e studiare i teoremi in modo astratto ed intellettuale.
Sul piano socio – politico, si pensi, inoltre, all’esperimento sociale della polis, che introdusse in Grecia, già nell’antichità, un modo di concepire lo spazio pubblico fondato sulla prassi di una cittadinanza direttamente coinvolta nell’agire politico e nell’esercizio diretto della libertà di parola, costituendo un paradigma insuperabile ed insuperato al quale, oggi, è quasi impossibile approssimarsi.
Il Liceo Classico, isola privilegiata per l’apprendimento delle humanae litterae (pur essendo diventato, recentemente, bersaglio dell’opinione pubblica per la scabrosa accusa di formare individui con una forma mentis sin troppo «teoretica»), fornisce i mezzi più adatti per operare professionalmente in tal senso: un classicista ad hoc, rifuggendo dal sapere «usa e getta», è in grado di esprimere le grandi narrazioni sociali del presente attraverso quelle del passato, mostrando una spiccata capacità di porre a confronto, discernere la transitorietà dalla durevolezza, proiettare in nessi intersoggettivi l’eredità culturale risalente ai secoli scorsi e comprendere in toto il valore del bello attraverso la traduzione e l’interpretazione di classici, tragedie, frammenti, orazioni ed opere d’arte.
L’istituzione del Classico, dunque, si pone al di sopra delle richieste di mercato fondate sul concetto di «specializzazione» e sulla monetizzazione delle abilità: non una «scuola delle competenze», ma un luogo di aggregazione e di confronto che prepara i giovani a recepire le potenzialità di un patrimonio che, pur appartenendo alla tradizione, si pone a fondamento per un’attuale rinascita.
«Tutto scorre», direbbe il filosofo Eraclito. Scorrono il tempo e la percezione che abbiamo di esso. Scorrono la società e le sue necessità. Scorrono i grandi personaggi, forse, ma ciò che essi ci hanno lasciato rimarrà sempre indelebile, eterno, profetico. Ed è necessario ricordarlo, sempre.
Flavia Carlino