Via D’Amelio: la vergogna di Stato o Stato della vergogna.
Anche quest’anno arriva il 19 luglio. Lo si avverte come si avverte un temporale in arrivo, un peso nell’aria che non è solo meteorologico ma morale. Ventiquattro ore dopo la solita passerella per Falcone, arriva il giorno di Borsellino. Puntuale, ma meno curato. Meno televisivo. Meno digeribile. Perché se Capaci è l’apoteosi della tragedia eroica, via D’Amelio è la cronaca di un delitto annunciato, la mappa precisa di un tradimento.
Non fu solo mafia, no. Sarebbe comodo, sarebbe rassicurante. Sarebbe come dire: c’è il Male, e poi c’è lo Stato, che combatte, che resiste. Ma la realtà è che lo Stato non resistette affatto. Lo Stato si scansò. Si fece da parte. O peggio: accompagnò il killer fino alla porta.
Borsellino sapeva. Sapeva troppo. Non solo dei clan, ma di ciò che ribolliva dentro i ministeri, nelle stanze dove si trattava – sì, si trattava – con i nemici dichiarati della Repubblica. Sapeva e, quel che è peggio, parlava. Continuava a parlare mentre tutto attorno a lui taceva. Per questo fu lasciato solo. Come si lasciano soli quelli che disturbano, quelli che non stanno al gioco.
C’erano i corvi in Procura, le intercettazioni scomparse, i documenti che cambiavano mani come banconote sporche. C’era il silenzio dei colleghi, il gelo dei superiori, l’aria pesante che si respira nei luoghi dove si è deciso che il sacrificio di uno solo vale l’equilibrio di tutti. Un equilibrio fondato non sulla giustizia, ma sulla paura e sull’opportunismo.
E allora ecco l’auto in via D’Amelio, ecco i cinque agenti della scorta, carne da macello per la macchina della retorica. Cinque nomi che oggi pronunciamo come si recita un rosario, ma che allora -!allora erano semplici pedine. Funzionari. Nessuno li avvisò, nessuno li tolse dalla linea di tiro. Non c’era un piano. Non c’era una protezione vera. C’era solo la certezza che Paolo sarebbe saltato in aria. E che andava bene così.
Perché Paolo era diventato un problema. Un problema per la mafia, certo. Ma anche per lo Stato trattativista, per i dirigenti con la doppia agenda, per i burattinai che ancora oggi non hanno un volto. Un problema da risolvere. E lo risolsero.
Lo uccise la mafia, sì. Ma lo ammazzò anche la Repubblica. Quella che avrebbe dovuto proteggerlo e non lo fece. Quella che oggi lo celebra con discorsi imbalsamati, targhe, corone d’alloro, ma che allora gli tolse il terreno sotto i piedi. Quella che – diciamolo chiaro – lo consegnò.
Via D’Amelio non è solo una strage. È una pagina nera di complicità istituzionale. È la prova provata che in Italia la verità ha sempre un prezzo troppo alto, e chi la cerca con ostinazione finisce per pagarlo con la vita.
Ci sono verità che non si vogliono dire, perché fanno male, perché costano, perché chiamano in causa nomi ancora in circolazione, poteri ancora attivi. Ma un paese che non ha il coraggio di pronunciare i nomi dei suoi traditori è un paese che merita il silenzio dei giusti.
Paolo Borsellino non è morto per caso. È stato lasciato morire. E finché non lo diremo ad alta voce, finché continueremo a chiamare martirio ciò che fu resa, continueremo a celebrare la sconfitta travestita da memoria.
E allora, oggi, a 33 anni dalla strage, leviamoci almeno l’onore dell’ipocrisia. Basta con le commemorazioni sterili, con le frasi a effetto, con i post social pieni di citazioni tagliate e incollate. Cominciamo col dire la verità: Paolo Borsellino fu ucciso anche dallo Stato. E lo Stato non ha mai davvero chiesto scusa.
Questo è il nodo. E ci strangola ancora.
Vincenzo Candido Renna