Quell’immagine che si ripete, ossessiva, è destabilizzante. Smantella ciò che per eccellenza rappresenta il valore di un’opera, l’unicità. Ma è proprio quella moltiplicazione di sé che la rende eccezionale, paradossalmente irripetibile.
È il prodigio di Andy Warhol a infiammare Otranto, con la mostra che ha aperto i battenti ieri pomeriggio nel castello e sarà visitabile fino al prossimo 30 settembre. Cinquanta opere “print”, stampate, su carta e non su tela, con la tecnica della serigrafia, la ripetizione in serie appunto. Provengono da collezioni private italiane e sono state selezionate da Gianni Mercurio, romano, studioso di arte americana. Si chiama “I want to be a machine”, voglio essere una macchina, una delle frasi più famose del principe della pop art, quella che ha cambiato l’idea stessa di arte visiva, all’alba degli anni ’60. “L’arte di Warhol è meccanica e per questo rivoluzionaria- dice il curatore-. In quel periodo la pittura era nelle mani di un manipolo di artisti astratti, come Pollock, e le loro immagini bandivano le raffigurazioni, per venire solo dalla pancia senza passare dalla testa. Warhol, invece, scardina tutto ciò. Quelli sono anche gli anni, infatti, in cui la tv entra nella vita di tutti i giorni. Lui non fa che stravolgere le regole del gioco ed estremizzare l’attitudine alla comunicazione”. E comunicazione è quella dell’artista, in ogni suo schizzo. Nei volti di Marilyn Monroe che diventano icona, nelle Falce e Martello che da simbolo del potere si trasformano in simbolo di consumo, nelle Lattine della Campbell che da oggetto da supermercato si fanno status simbol. E poi, ancora, la sedia elettrica, le stampe dei fiori sgargianti, uno dei suoi temi per eccellenza, assieme ai dollari. E, infine, quello che non ti aspetti. Il sacro. C’è anche questo a Otranto. San Giorgio e il Drago e Sant’Apollonia, due dei lavori dedicati alla spiritualità e che anticipano l’ultimo capolavoro del Maestro, “Last Supper”, quell’omaggio non a Da Vinci ma al Cristo. Profondamente religioso, quanto non si direbbe, praticante ortodosso e ossessionato dalla dimensione. È questa che lui “rigenera” nelle sue opere. Strappa dall’immaginario quella consuetudinaria, quella dell’apparenza, per guardare oltre, oltre le derive che avrebbero caratterizzato da lì in poi l’arte contemporanea. Warhol arriva a Otranto dopo Mirò, Picasso e Dalì, ma tra tutti è colui che rappresenta, nel Novecento, il punto del non ritorno. Quanto Duchamp e forse di più, con il suo sogno che tutto possa essere arte da consumare e che tutti possano “consumarla” effettivamente. A Otranto le sue opere sono affiancate dalle tre mostre collaterali della “Summer Pop 2012”, quelle di Ninì Elia, di Franco Baldassarre e di Bruno Maggio, con un ingresso segnalato dalla “Boat People”, la barca della gente, omaggio al popolo migrante, dal Vietnam del 1976 a Cuba al Nord Africa all’Albania. Una riflessione che è un pugno nello stomaco, se ci si ferma a pensare. Con un di più che sa di straordinario. Warhol avrebbe potuto essere ospitato meglio nelle sale ampie e vuote di un qualsiasi museo d’arte contemporanea. Stridono i suoi colori con l’austerità del castello idruntino. “Ma è questo cortocircuito- assicura Mercurio- a dare anima a questa mostra”.