GALLIPOLI (Lecce) – La Cassazione conferma la condanna a 30 anni di carcere per Marco Barba, il 47enne di Gallipoli, accusato dell’omicidio dell’ambulante marocchino Khalid Lagraidi. I giudici della prima sezione penale della Suprema Corte hanno rigettato il ricorso della difesa (rappresentata dall’avvocato Fabrizio Mauro) allineandosi con la condanna di primo emessa dal gup Carlo Cazzella e in secondo grado dai giudici della Corte d’Assise d’Appello (Presidente Roberto Tanisi, a latere Francesca Mariano).
L’omicidio risale al 23 giugno del 2016 ma il cadavere venne ritrovato a distanza di mesi. La scoperta arrivò a fine gennaio quando Rosalba Quarta, figlia di Barba, rosa dai rimorsi, decise di raggiungere la caserma dei carabinieri di Gallipoli per togliersi un peso dalla coscienza. Agli investigatori raccontò le modalità della brutale esecuzione accompagnando i militari (guidati dall’allora capitano Francesco Battaglia) sul luogo in cui si sarebbe consumato l’omicidio. “U Tannatu”, così come Barba è conosciuto negli ambienti del sottobosco malavitoso gallipolino, avrebbe trascinato l’ambulante 41enne in aperta campagna nei pressi di Madonna del Carmine dopo aver prelevato il cittadino nord africano direttamente da Lecce. Barba avrebbe dapprima cercato di strangolare Lagraidi. Poi gli avrebbe sferrato numerosi colpi con un corpo contundente alla testa provocandogli diverse fratture al cranio. Infine avrebbe cercato di nascondere il cadavere in un bidone metallico e di sciogliere il corpo con numerose bottiglie di acido muriatico.
L’occultamento del cadavere sarebbe stato compiuto grazie alla collaborazione della figlia. I due Barba avrebbero riposto il corpo nel fusto ricoprendolo con pietrisco e materiale edilizio sotto gli alberi. Del cittadino nord africano non sarebbe dovuta rimanere alcuna traccia sepolto in un bidone e ricoperto con del pietrisco e calce per evitare la fuoriuscita. Nelle intenzioni di Barba, la calce e l’acido avrebbero dovuto decomporre il corpo in tempi rapidi. In realtà il manto avrebbe protetto il cadavere dall’azione corrosiva. A distanza di mesi, come detto, è arrivata la svolta con la decisione della figlia di Barba di “collaborare” con la giustizia tradendo i vincoli di sangue. Il movente per un’esecuzione così efferata sarebbe legato al mancato pagamento di Lagraidi di un piccolo quantitativo di hashish a Barba.
Tale ricostruzione è stata confutata nel corso dei vari interrogatori rilasciati davanti al pm in cui Barba ha sempre dichiarato di non aver agito con premeditazione ma per gelosia dopo aver saputo che la figlia aveva allacciato una relazione sentimentale con l’ambulante. nei confronti dei familiari della vittima, assistiti dagli avvocati Luigi Pedone e Antonio Mazzeo, sono state confermate le statuizioni di parte civile. Barba è attualmente detenuto nel carcere di Trani.