RACALE (Lecce) – “Il corpo del piccolo Mauro Romano non è mai stato ritrovato né dalle indagini è emerso alcun elemento dal quale poter dedurre che sia stato ucciso o comunque morto”. Il bimbo di Racale, scomparso il 21 giugno del 1977, potrebbe essere ancora in vita e la Procura lascia uno spiraglio di luce nell’inchiesta che si appresta a chiudersi in un nulla di fatto. Per la terza volta. Un barlume di speranza per mamma Bianca e papà Natale messo nero su bianco dalla pm Simona Rizzo nella richiesta di archiviazione avanzata a carico dell’unico indagato: l’ex barbiere Vittorio Romanelli, l’amico di famiglia così come era conosciuto, accusato di sequestro di persona e assistito dagli avvocati Giuseppe Gatti e Antonio Corvaglia. Non c’è certezza che Mauro sia morto. Le indagini, riaperte nel 2020, non hanno consentito di ritrovare il corpo del bimbo nonostante una serie di sopralluoghi effettuati in località “Castelforte” dove si ipotizza che il bimbo sia stato rapito da “un uomo a bordo di una motoape” prima di finire nelle mani dei suoi sequestratori.
Sopralluoghi effettuati il 23 luglio del 2020 e il 4 agosto 2020. E nella seconda occasione i carabinieri non erano soli. Con i militari era presente anche l’ergastolano Vito Troisi, compagno di giochi di Mauro nelle ore in cui sparì. Ma nessun elemento è stato raccolto per ipotizzare le accuse di omicidio e di sequestro di persona (reato peraltro abbondantemente prescritto) a carico di Romanelli. E sì perché in questa storia un ruolo per nulla secondario lo hanno ricoperto gli amichetti di Mauro che erano insieme a giocare a nascondino. Tra loro c’era proprio Vito Troisi. Che, sentito a sommarie informazioni, ha fornito ricostruzioni sempre contraddittorie nei vari ascolti. Ha prima parlato di una scomparsa volontaria dell’amichetto; in un secondo momento ha riferito che Mauro sarebbe stato prelevato da un adulto (indicato come zio Antonio) a bordo di una motoape a tre ruote; salvo poi riferire che l’amichetto di gioco si era recato dallo “zio” volontariamente.
Eppure quando gli investigatori hanno esibito a Troisi un album fotografico con una foto dell’epoca dell’indagato, l’ergastolano non ha riconosciuto l’uomo che aveva indicato come “lo zio Antonio il barbiere”. D’altronde tutta l’inchiesta è piena di contraddizioni, reticenze e passi indietro nelle dichiarazioni che, di certo, non hanno agevolato le indagini di un omicidio maturato in un contesto difficile come quello dei testimoni di Geova tanto che la pm sottolinea “il clima di latente omertà emerso nell’ambito della comunità religiosa della quale facevano parte i soggetti coinvolti nella vicenda”. Più membri della Congregazione, sentiti a sommarie informazioni, hanno confermato agli investigatori di aver raccolto negli anni le confidenze del figlio di Romanelli su alcuni dettagli relativi alla scomparsa di Mauro: “Mi ha specificato che ha visto un signore con una lambretta, motoretta o vespa, che prelevava questo bambino e lo portava via”; un altro esponente riferì che “Sergio Romanelli aveva detto che all’epoca dei fatti aveva visto un uomo che prendeva sotto braccio Mauro Romano”. O la sit di una donna che tirò in ballo alcune dichiarazioni di Romanelli Junior che, in una località non distante da “Castelforte”, rispolverò il ricordo sul 21 giugno 1977: “Stavamo giocando – racconto il figlio di Vittorio – in quel terreno quando ad un certo punto arrivò una macchina di colore bianco e scese un signore alto, un po’ robusto con dei baffi, che afferrò Mauro sotto il braccio e scappò risalendo nell’auto con la quale era appena giunto”.
E una volta arrivati a casa dei Romanelli, sentendo il discorso del figlio, la madre si sarebbe arrabbiata minacciandolo di stare zitto perché se fosse successo qualcosa non avrebbe pagato alcun avvocato disinteressandosi della vicenda. E proprio la moglie di Romanelli è un’altra figura chiave in questa terza riapertura dell’inchiesta. Donna forte e di carattere indica agli uomini di casa come comportarsi e cosa va fatto e quello che non va detto. Come in occasione della convocazione in caserma quando i carabinieri raccolgono un’intercettazione per certi versi emblematica. In quella circostanza, la donna avrebbe indottrinato i congiunti raccomandandosi con entrambi di rimanere calmi. Addirittura al marito, ritenuto una persona caratterialmente fragile, somministrò degli ansiolitici per tenerlo calmo, minarne la lucidità e farlo passare per incapace nel corso della sua deposizione davanti ai carabinieri. Questo lo spaccato che ha accompagnato le indagini in uno scenario in cui molti protagonisti principali o ai margini hanno preferito mantenere lo status quo anziché agevolare le indagini culminate già da tempo con l’archiviazione di Antonio Scala, inizialmente accusato di omicidio e occultamento di cadavere. “Ancora una volta l’autorità giudiziaria ha accertato che c’è stata omertà – è il pensiero dell’avvocato della famiglia, il legale Antonio La Scala – ed elementi che portano ad ipotizzare un inquinamento ambientale nell’ambito dell’acquisizione delle prove condotte ai limiti della legalità”.
E chissà che a questo punto non riprenda nuovamente quota la pista araba caldeggiata da mamma Bianca in attesa che venga fissato un incontro con lo sceicco Mohammed Al Habtoor.