LECCE – La riflessione sul fenomeno inflativo e sulla crisi del lavoro pubblicata ieri su questo giornale ha spinto il professore Guglielmo Forges Davanzati dell’Università del Salento a intervenire per dare un contributo da economista sull’argomento. Oggi ci ritroviamo con gli stipendi più bassi d’Europa anche nel pubblico, con tasse altissime, personale carente, servizi meno efficienti soprattutto al sud e con i prezzi che schizzano alle stelle anche perché negli anni ‘90 abbiamo cambiato il nostro sistema economico. I politici della cosiddetta “prima Repubblica” puntavano alla piena occupazione utilizzando il pubblico come ammortizzatore sociale e tenevano gli stipendi a un livello accettabile perché non avevano introdotto i “contratti di flessibilità lavorativa” che poi una classe politica diversa e meno lungimirante applicò, determinando un impoverimento a catena. Se oggi un giovane che lavora, generalmente non è in grado di acquistare auto e casa, senza farsi aiutare dalla famiglia, come facevano i nostri genitori, è solo perché gli stipendi inchiodati agli standard di 20 anni fa e la precarizzazione selvaggia lo hanno reso incapace di programmarsi un futuro e di fare figli. Gli ultimi avvenimenti, guerra e speculazione energetica, hanno ancora di più incancrenito un tumore che era in stato avanzato.
Flessibilità e austerity, ideologie economiche devastanti negli anni, hanno prodotto povertà: giovani con stupendi dai 600 agli 800 euro ritenuti occupati che in realtà non possono essere autonomi rispetto ai loro genitori e non possono dare un contributo vero al sistema pensionistico, né a quello delle imposte dello Stato. Dunque, un cane che si morde la coda e risucchia detto tutto come un vortice, perché siamo di fronte a gente che limiterà i consumi facendo calare l’economia. L’austerity ha prodotto anche amministrazioni locali aggressive sul piano della tassazione e della ricerca degli introiti, come scrivevamo ieri, ma poverissime sul piano dei servizi e con personale insufficiente (si veda il caso di Lecce in predissesto). La riflessione di ieri terminava con un dubbio: la classe politica precedente agli anni ‘90 era più preparata economicamente e rispettava lo spirito di una Costituzione basata sul lavoro dignitoso? In effetti, il debito pubblico degli “anni d’oro” era alto e tendente ad aumentare, ma il PIL lo garantiva pienamente, essendo molto più importante e crescente in quegli anni. La strada intrapresa successivamente, con i “lavoricchi” co.co.co, che tanto piacevano alle multinazionali e ai call center, dove ci ha portati? Dopo tanti anni, possiamo tirare le somme: decrescita economica e demografica.
Non ci sono scuse: sul banco degli importanti c’è anche la “sinistra progressista” che avrebbe dovuto difendere il lavoro. Oggi consideriamo lavoro, inserendolo tra gli occupati, anche quello sottopagato. “Non è solo questione di demarcazione fra prima e seconda Repubblica – chiosa il professore UniSalento Forges Davanzati, che prende spunto dalla riflessione pubblicata ieri per approfondire il tema – Negli anni Novanta l’Italia partecipa a una grande ondata di globalizzazione e si adegua con un profilo basso: decurtazione dei salari reali, per accrescere la competitività internazionale e le esportazioni nette, aumento della flessibilità del lavoro e austerità. Quest’ultima, praticata con maggiore intensità rispetto ai nostri partner europei, ci condanna ad avere il settore pubblico più sottodimensionato d’Europa (e, nel Mezzogiorno, più sottodimensionato rispetto alla media nazionale, Calabria esclusa), con gravi tagli reiterati a scuola, sanità e assistenza sociale. Occorre ripensare le basi teoriche che ci hanno accompagnato negli ultimi decenni per tornare a crescere tramite maggiore intervento pubblico e maggiore spesa soprattutto nel settore della ricerca e sviluppo. Occorre, infatti, da un lato frenare l’impoverimento delle classi medie e dei più poveri, dall’altro frenare la caduta del tasso di crescita della produttività del lavoro”. In una parola adeguare i salari alla vita reale e assumere nel pubblico tanto da coprire tutti i posti rimasti scoperti con i pensionamenti, che fanno calare la qualità dei servizi. Il debito pubblico potrebbe aumentare, ma il PIL aumenterà del doppio (sempre meglio che farlo aumentare con i bonus edilizi concessi ai ricchi!). È una politica keynesiana che sembra l’unica strada possibile per tornare a crescere e per dare un futuro ai nostri giovani.