Ogni anno con varie iniziative culturali si ricorda la scoperta della Grotta dei Cervi di Porto Badisco, avvenuta il I febbraio 1970 ad opera di Severino Albertini, Enzo Evangelisti, Isidorio Mattioli, Remo Mazzotta, Daniele Rizzo, componenti del Gruppo Speleologico “Pasquale De Lorentiis” di Maglie.
Gli studi ufficiali intorno alla Grotta dei Cervi di Porto Badisco ebbero inizio già al momento della sua scoperta, nel clima di rinnovamento metodologico sull’indagine e sull’analisi archeologica avviato negli anni Sessanta (“All’origine della conoscenza” www.corrieresalentino.it 31 luglio 2011).
Si fece carico di studiare la cavità, nel suo contesto geologico, iconografico e di cultura materiale, l’autorevole storico Paolo Graziosi, dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, docente dell’Università di Firenze, immediatamente interpellato dalla Sovrintendenza di Taranto.
Dopo uno studio decennale, coadiuvato dalle sue assistenti Mara Guerri e Alda Vigliardi, pubblicò “Le pitture preistoriche della Grotta di Porto Badisco”, Giunti Martello, Firenze nel 1980.
Il saggio risulta il più autorevole tra gli scritti ufficiali che sanciscono l’importanza della grotta. Egli concilia una valutazione storico-artistica con le analisi delle pitture, per avviare un percorso orientato ad un loro ampio inquadramento culturare e stilistico nell’ambito delle culture preistoriche europee.
Il rallentamento degli studi ufficiali, dopo quelli del Graziosi, è attribuibile sia all’esaustività del suo lavoro, sia alla limitata accessibilità alla grotta. A causa della deperibilità delle pitture, il cui degrado fu immediatamente innescato all’apertura per la modificazione del microclima interno alla cavità, i responsabili della Sovrintendenza di Taranto ne sospesero la frequentazione, ammettendo comunque la possibilità di un accesso autorizzato per i soli fini di studio.
Fatte le analisi stratigrafiche del terreno, la cavità fu chiusa e centinaia di reperti ritrovati in grotta furono “depositati” nel Museo Archeologico di Taranto, dove ancora sono giacenti e non esposti al pubblico.
Per gli addetti ai lavori sarebbe necessaria l’analisi e la conseguente catalogazione di quei reperti per completare lo studio contestuale di quelle espressioni pittoriche parietali, connesse con la produzione materiale dei manufatti ceramici rinvenuti nei corridoi nella cavità. Tali risultanze, che permetterebbero di collocare la grotta nell’orizzonte culturale molto esteso della preistoria che ha interessato il Salento, rappresenterebbero la condizione necessaria per richiederne ufficialmente la salvaguardia e la valorizzazione.
Senza tali studi sembrerebbe impossibile offrire agli enti preposti alla protezione e promozione dei beni culturali una motivazione per impegnarsi a riconoscere alla grotta quel rispettabile valore culturale che possa permettere l’avvio delle operazioni necessarie per una sua adeguata valorizzazione.
La strada che conduce all’analisi dei reperti rinvenuti nella grotta si presenta, però, molto lunga da affrontare, anche in relazione al momento di crisi economica attuale, che non incoraggia la ricerca e pone in condizione di stallo interi dipartimenti universitari ufficialmente preposti a tali studi analitici.
I reperti di Badisco, tuttavia, all’epoca della scoperta, ad una prima analisi effettuata dal prof. Santo Tinè, dell’Università di Genova, che partecipò con il prof. Graziosi agli studi della grotta, furono prevalentemente riferiti al Neolitico medio, con una prevalenza della produzione ceramica votiva attribuita alla fabbrica di Serra d’Alto. Vi erano però anche tracce riconducibili al Neolitico antico, come la “testina di orante”, che ha evidenti connessioni con la cosiddetta “sciamana” di Passo di Corvo (Foggia), risalente al VI millennio a.C., prodotta in un ambito culturale da cui scaturì la facies ceramica di Masseria La Quercia (FG).
Nella produzione di manufatti ceramici la distinzione tra gli stili è dovuta ai differenti disegni della decorazione, oltre che alla forma dell’oggetto, che era funzionale ad uno specifico impiego.
Apparentemente legata all’inventiva dell’artigiano, la decorazione della ceramica impiegava invece un repertorio di forme appartenenti ad un codice pre-scritturale composto da simboli di origine remota.
Le linee spezzate, singole o in parallelo, che generano triangoli, losanghe, tremuli, e le linee curve a forma di
“S”, che generano spirali semplici, doppie e ricorrenti, sono tutti grafemi appartenenti ad un repertorio iconografico simbolico, ad archetipi di origine paleolitica che si ritrovano, in forma più arcaica rispetto ai modelli elaborati per la ceramica, tra le pitture rupestri della Grotta dei Cervi di Badisco e alcuni anche sulla statuina della cosiddetta “sciamana” citata.
Tramandati attraverso i manufatti della cultura materiale paleolitica, attraverso alcune forme simboliche associate con funzione di “determinativi” alle scene realistiche delle grotte-santuario franco-cantabriche, attraverso i dipinti e i graffiti nelle grotte maddaleniane della penisola iberica, i simboli rientrano anche nell’iconografia della Grotta dei Cervi di Badisco, veicolate dal repertorio iconografico condotto nel Salento dalle genti franco-cantabriche ed iberiche, recentemente denominate “romanelliane”.
Se pur considerato dai più dal significato oscuro e incomprensibile, il bagaglio culturale simbolico dell’uomo nasce come linguaggio ideogrammatico di origine cosmologica sin dai primordi della sua storia.
Attesta l’appartenenza ad un linguaggio pre-scritturale remoto il manufatto in ocra, rinvenuto pochi anni fa a Bomblos, in Africa, risalente a 77 mila anni fa, graffito con una serie di losanghe, un simbolo di origine astronomica, che si ritrova ancora nella Grotta dei Cervi, nella “sciamana” di Passo di Corvo, nella simbologia pre-scritturale collegata alla cultura megalitica, nei segni calligrafici di alcune scritture e ancora oggi, incluso perfino nella simbologia cristiana.
Le analogie tra i simboli rappresentati sulle pareti della Grotta dei Cervi e le decorazioni della ceramica del tipo Serra d’Alto hanno fatto risalire alla medesima epoca anche le sue pitture parietali, mentre queste perpetuano il repertorio originario remoto, divenuto anche fonte d’ispirazione per petroglifi e per pitture rupestri, ancor prima di confluire nel repertorio decorativo della ceramica votiva, tanto per quella prodotta in Oriente, quanto per quella prodotta in Occidentale.
Analogie con le pitture di Porto Badisco si trovano infatti in Occidente nei petroglifi proto-camuni e camuni e in Oriente nelle pitture rupestri del Monte Latmo, in Anatolia (VI millennio.a C.), nei petroglifi di Syunik in Armenia (V millennio a.C.), nella ceramica di Hacilar e di Samarra (V millennio a.C.), nelle pitture di Arselantepe, in Mesopotamia (IV millennio a.C).
(Marisa Grande, in www.corrieresalentino.it, www.anxa.it, www.runabianca.it, www.synergetic.art.com).
Tale estesa conoscenza del repertorio pittorico della Grotta dei Cervi di Badisco si deve al suo ruolo di “santuario preistorico” che aveva già accolto per millenni le genti del bacino del Mediterraneo, attribuzione già conferita a suo tempo da Paolo Graziosi.
La datazione oggi attribuita alle pitture di Badisco è invece riferita alla facies di Serra d’Alto e alla data 3900 ± 55 a.C., ricavata dall’analisi al carbonio 14 effettuata sui resti combusti di un focolare neolitico rinvenuto in loco, tutti elementi comunque indipendenti dalle pitture parietali, attribuibili ai frequentatori della grotta e non necessariamente coevi a quelle, ma sicuramente preesistenti, considerato l’ampio orizzonte culturale meso-neolitico che le include.
Queste, stilisticamente composite, contengono in sè un “codice cosmico” elaborato in fase post-glaciale, che solo l’apertura agli studi del paleoclima e della paleo-astronomia, con implicazioni di natura cosmologica, hanno permesso di recuperare e che andrebbe ampiamente diffuso per far comprendere il senso e la grande importanza della Grotta dei Cervi di Porto Badisco.
All’analisi delle pitture, effettuata con i paramentri delle nuove scienze che implicano le conoscenze dell’astronomia empirica praticata sin dal più remoto Paleolitico, quei simboli assumono infatti un “senso” e comunicano “significati” che li riscattano dalla connotazione di “oggetto oscuro e incomprensibile”, marchio che li destina inesorabilmente all’oblio.
L’importanza della grotta, se la si vuole valorizzare, è quindi in primo luogo direttamente dipendente dalle sue pitture, parti integranti delle sue pareti, con le quali si relazionano in un rapporto anche di tipo energetico, a cui si prestava molta attenzione sin dal Paleolitico, come dimostrano quelle figure che integrano la conformazione della roccia nella realizzazione dell’immagine scolpita o dipinta nelle grotte franco-cantabriche.
In secondo luogo dipende dalla sua posizione geografica, essendo collocata sul 40° parallelo Nord, lo stesso del Monte Ararat, con il quale Badisco condivise la posizione della “prima corda” dell’antico Triangolo delle Ottave Oracolari sin dall’inizio dell’Olocene, nel periodo compreso tra i millenni XI e V a.C., precedente al Triangolo Oracolare noto ai greci, la cui prima corda passò su Dodona, in Grecia, e sul Piccolo Ararat, in Armenia, per lo slittamento verso sud dovuto al “salto” di stagione precessionale.
(Robert Temple, “il mistero di Sirio”, Piemme 1998)
Per sei millenni la Grotta dei Cervi fu dedicata ad Orione, l’antropomorfo celeste, l’arciere del cielo, la costellazione segnatempo dell’attuale emiciclo precessionale di circa tredicimila anni solari.(M. Grande, “L’orizzonte culturale del megalitismo”, Besa 2008).
Per questo la sua importanza era estesa a tutti i popoli del Bacino del Mediterraneo, indipendentemente dalla distinzione tra occidentali e orientali.
Nelle sue immagini, quasi Bibbia pauperum dell’epoca, quelle genti seppero leggere concetti mitologico-religiosi e filosofico-etici. Ai suoi segni e ai significati delle sue pitture quei popoli seppero attingere principi di astronomia empirica e di cosmologia, ai suoi ideogrammi infine seppero dare forma calligrafica per elaborare molte forme di scrittura. (M. Grande, “Dai simboli universali alla scrittura”, Besa 2010).
Noi oggi dovremmo saper valorizzare il patrimonio culturare delle sue pitture, ereditato dai nostri antenati, per non disperderne l’importanza o vederlo scomparire per il degrado, divulgarne la conoscenza su vasta scala, senza tuttavia ammettere l’ingresso al pubblico, potendoci servire di immagini virtuali messe a disposizione da tecnologie non invasive e anche poco costose, come la “Realtà Virtuale 3D Avvolgente”, proposta agli enti di competenza sin dal 1998 dal presidente dello SpeleoTrekkingSalento Riccardo Rella, anch’egli speleologo e vicino da sempre agli scopritori della grotta (www.trekkingsalento.com).
Sapendo che il linguaggio iconografico della Grotta dei Cervi di Badisco si pone a fondamento di tutte le culture storiche, dovremmo fare presto a tutelare quel patrimonio artistico e culturale inestimabile, per non incorrere nel rischio di vederlo relegare nell’ambito di quei beni e di quei valori coinvolti in una inesorabile e, purtroppo dilagante, “amnesia collettiva”.