Quando si accede al mondo di Dino Campana sembra inevitabile assaporare il gusto dell’estremo e del visionario. I luoghi descritti nelle sue poesie sono inafferrabili frammenti di un paesaggio che corre oltre il vetro, sono lampi di luce che esplodono all’improvviso e che rivelano piccoli pezzetti di mondo filtrati attraverso l’animo disagiato del poeta.
Tuttavia per molto tempo la critica italiana ha ignorato la complessità dell’opera e il valore dell’artista, continuando a procedere nel solco creato dal duro giudizio di Giovanni Papini secondo cui Campana non era altro che “un malato di spirito, preso dal fuoco della poesia, ma senza l’equilibrio per essere un buon poeta”. Ma esistono forse, scrittori che non nutrono il proprio animo tormentato con il fuoco della Poesia? Per fortuna negli anni ’60, abbandonati i pregiudizi sulla vita malfamata e caotica di Campana, avviene finalmente la riscoperta del vero rinnovatore del linguaggio poetico del Novecento ed esplode la grandezza dello scrittore toscano, al quale viene attribuito persino il ruolo di “poeta maledetto.”
Descrivere la storia tormentata e sofferta di Dino Campana non è un’impresa facile, soprattutto perché i documenti biografici che ci rimangono sono pochi e lacunosi; sappiamo con certezza che nasce a Marradi, piccolo paesino tosco-romagnolo in provincia di Firenze, nell’agosto 1885 e che gran parte della sua esistenza si è svolta nell’ombra. Fin dall’adolescenza Dino è affetto da particolari disturbi psichici che si ripresenteranno lungo tutto il corso della sua vita, il pesante fardello della pazzia ereditaria (suo zio era morto in manicomio) grava sul giovane come una maledizione: la famiglia, gli amici e infine i medici interpretano la sua impulsività brutale come follia. L’instabilità mentale non impedisce al giovane di intraprendere gli studi universitari, infatti si iscrive alla facoltà di Chimica di Bologna e continua a portare avanti l’attività di scrittura e lettura intrapresa in solitudine sulle montagne marradesi. Presto, però, interrompe il suo percorso universitario e tra il febbraio e il maggio del 1906 si dà al vagabondaggio: ha inizio la vera e propria fuga campaniana. Si narrano molte storie o forse leggende che lo vedono protagonista dei più svariati mestieri in compagnia di comunità di saltimbanchi e zingari (i bossiaki russi) e che acquistano veridicità poiché confermate, in parte, dallo stesso Campana durante gli interrogatori intrattenuti con il dott. Pariani, suo medico curante all’Ospedale psichiatrico di Castelpulci. Il viaggio senza meta dello scrittore tocca la Svizzera, l’Argentina, Bruxelles, Odessa, Parigi e rivela un bisogno di fuggire dalla società borghese che avvicina Campana all’esperienza estrema di Arthur Rimbaud. Il confronto tra i due scrittori, spesso eguagliati, permette di evidenziare il comune vitalismo nietzschiano- dannunziano e l’idea del viaggio come fuga dal mondo civile, ma allo stesso tempo porta alla luce la diversa scelta legata alla letteratura, infatti se Rimbaud abbandona consapevolmente la vecchia vita e la vocazione letteraria per esperire appieno la propria avventura, Campana subisce inconsapevolmente gli eventi, vivendo una lotta estenuante per conquistare la serenità che neppure la relazione con Sibilla Aleramo riesce a dargli. Il poeta marradese rincorrerà sempre la vita che non era riuscito ad avere e senza tradire mai il suo ideale di poesia, finirà i suoi giorni nel manicomio di Castelpulci, dove nel 1932 il fuoco della sua arte si spegnerà definitivamente. Tutta l’esistenza di Dino Campana è custodita nell’unica opera dell’autore: i Canti orfici. Nella raccolta di poemetti in prosa e versi, lo scrittore recupera il mistero degli antichi riti in onore di Orfeo secondo cui la poesia è un fatto magico e misterioso che permette allo spirito di entrare in una dimensione esoterica – salvifica. I luoghi, le persone e la realtà, appaiono trasfigurati attraverso le fantasie e le allucinazioni dell’animo tormentato, le immagini sognate e vagheggiate nascondono l’aspetto più arcano e primordiale della vita, i versi sono spezzati, liberi, irrazionali e una tensione continua muove ed accende lo stile dell’opera. Tutto l’insieme dell’opera riflette dunque, la personalità ribelle e folle dell’autore ma soltanto chi è in grado di liberarsi dai condizionamenti e dai pregiudizi esistenziali, può cogliere a fondo il mistero poetico di Dino Campana, afferrando tutti i singoli frammenti della sua poesia in fuga.
di Maria Maddalena Crovella