E’ così ogni inizio d’anno scolastico. Da sempre, si fa strada un nuovo dibattito sulla riforma della scuola. Quest’anno tocca al Ministro Stefania Giannini, che rimette mano alle 36 ore di lavoro settimanale dei docenti (a oggi 25 ore per le scuole d’infanzia, 24 per le elementari, 18 per le scuole medie e superiori), allo stipendio che, un giorno, forse, aumenterà, secondo i parametri della comunità europea, che ci vedono fra gli ultimi, anche in questo, in graduatoria.
E poi c’è il nuovo contratto di lavoro. Il Ministro promette “un’autentica rivoluzione”. Forse sarebbe meglio parlare di uno tsunami, ma di quelli che, alla fine, lascia solo sabbia, pioggia e vento. Sul modello di quello che mesi or sono il sottosegretario Reggi ha annunciato, a ‘mo di previsioni del tempo: scatti di anzianità invariati e aumento dello stipendio (tramite premi, come nelle migliori lotterie di Stato) fino al 30 per cento ma solo per chi ricopre ruoli di responsabilità (non è dato sapere né capire di chi si sta parlando) o alcune specifiche attività (informatica, lingue straniere e storia dell’arte). Si è parlato finanche di un anno scolastico lungo 230 giorni.
In compenso, come sempre, i tagli: quello alla durata degli anni di studio alle scuole superiori, non più 5 anni, ma solo 4. E poi, tagli anche agli esami di Stato, per i quali un taglio definitivo, nel senso proprio della loro eliminazione, ci starebbe.
Cosa ne sarà, davvero, della proposta, relativa agli istituti superiori (in particolare tecnici e professionali), considerati come incubatori di impresa? L’istruzione funzionale al tessuto produttivo, atta alla formazione di figure professionali che interagiscano con le realtà del territorio. Di quali realtà si tratta? Perché noi ne conosciamo alcune, quelle tipiche della nostra Italia, che potrebbe vivere grazie ai musei, alle opere d’arte, ai teatri, a tutto il patrimonio archeologico e storico che possiede. E perché, invece, si parla delle scuole come fabbriche, solo in rapporto alle grandi industrie meccaniche, metallurgiche, elettrotecniche? Ci stanno propinando una scuola, asservita anch’essa ai gruppi industriali gestisti dalle grandi banche?
Noi italiani siamo altro. Siamo anche Fiat, Ilva, Magneti Marelli, ma siamo anche e soprattutto Dante, Michelangelo, il Melodramma… Chi si occuperà di tutta questa grande impresa culturale, se ci si insegna che dovremo formare le giovani leve solo in rapporto a quello che si produce e consuma?
Niente, invece, di nuovo, rispetto a quello che renderebbe davvero onere ad una vera riforma, che comporta innovazione e cambiamento dei contenuti, volgarmente definiti programmi, per i quali si immagina, come consuetudine nelle ‘cose’ italiane, commissioni di espertoni, pronti a mettere mano a tutto quello che gli insegnanti propineranno ai loro studenti, senza che, magari, nessuno dei cosiddetti esperti abbia mai messo piede in un’aula scolastica. D’altronde, non è così anche per i ministri dell’Istruzione, di cui non si capisce se anche l’aggettivazione “Pubblica” è ancora in auge? Quando avremo la possibilità di rapportarci con un Ministro dell’Istruzione che sappia davvero quello che passa e trapassa nelle aule scolastiche?
Tuttavia, attraverso la fantomatica riforma Giannini, ci si preoccuperà anche delle possibilità stesse di diventare insegnanti. Si necessiterà di una laurea magistrale, vecchio o nuovo ordinamento? Chi stabilirà se quella di prima era vecchia e se quella di ora è nuova? 3+2 o, come negli ipermercati, si opterà per invitare al “paghi 5 e prendi 3”? Tanto si tratta di scuola. La scuola, come la cultura, non fa mangiare. Lo sanno bene gli insegnanti, che diventano sempre più poveri, anche in termini materiali. Perché oggi comprare un libro per la propria crescita culturale significa sottrarre un bene al proprio figlio, iscriversi ad un corso di formazione significa fare sacrifici che comportano scelte diverse per l’economia famigliare, andare al cinema, a teatro, ad un concerto, lo si deve calendarizzare, perché formarsi e acculturasi in Italia è un costo, non da poco. In altri paesi lo Stato investe in chi ha più lauree, in chi investe i propri risparmi nella compera di libri. Diventa un investimento chi sceglie di comprare un tv a schermo piatto in meno e investe nell’acquisto di libri, cd, dvd (basti guardare quello che accade in Germania, in Francia, in Belgio, ecc.).
Sarebbe bello discutere di tutto ciò, insieme, chi governa e ha compiti di responsabilità nella e per la scuola pubblica, con chi ci lavora da tempo, sporcandosi le mani con quanto oggi manca agli studenti e agli insegnanti per lavorare a giusto modo; riempiendosi gli orecchi sulle continue lamentele dei costi supportati da parte di genitori per mandare i figli a scuola; guardando davvero, non soltanto con gli occhi, sullo stato di degrado in cui versano bidelli, studenti, applicati di segreteria, ecc., che facciamo davvero la scuola. Quella che cambia, a prescindere dai Ministri, che si riforma, senza tener conto delle carte ufficiali, che è in grado di resistere, nonostante tutto.
Bisognerebbe trattare questi temi nei corsi di formazione degli insegnanti, perché siano pronti ad essere forti, ad imparare la validità necessaria dei tirocini in classe, quelli a contatto con le persone, non con le carte e i libri, che ci fanno confondere i nomi propri con quelli comuni: gli utenti. Solo così si avrebbe la giusta idea, sin dall’inizio, della incongruenza fra la formazione universitaria, anche post universitaria, niente affatto utile, tanto meno funzionale, alla didattica, quella nella scuola reale. Che, nonostante tutto, riesce ancora ad essere uno dei pochi salva-gente, in un Paese che, sempre più, rischia di affondare.
Leonardo Bianchi