Alla morte di Domiziano, il senato, che aveva il diritto di scelta dell’imperatore, nominò il settantenne Cocceio Nerva. Tale scelta, ovviamente, lasciava prevedere un regno di breve durata e tale fu perché durò due anni. Governò senza particolari scossoni ma ebbe il tempo di individuare il successore che fosse gradito al senato ed a tal proposito lo adottò come figlio, dato che figli non ne aveva. La scelta fatta fu il miglior servizio reso da Nerva allo stato. L’adottato rispondeva al nome di Marco Ulpio Traiano.
Era nato nella Spagna Betica ed era figlio di un generale romano. Percorse un brillante “cursus honorum” senatoriale fino a diventare console. Nel momento in cui Nerva lo designò, era in Germania al comando dell’armata del Reno. Quando seppe della designazione non si scompose più di tanto, ringraziò della fiducia e disse che sarebbe venuto ad assumere il comando appena regolate le pendenze con i teutoni. Li storici del tempo ci descrivono questo quarantenne alto e robusto, di costumi molto sobri, coraggiosissimo e senza esibizionismi di sorta. La sua scelta rappresentò una novità dal momento che fu la prima volta che si nominava imperatore uno nato fuori dai confini italici. Traiano, sostenuto dalla devozione dell’esercito, rispettoso della dignità del senato, estraneo agli intrighi di corte, rappresentava la migliore garanzia che la politica di Nerva, basata sul principio di “potere e libertà”, sarebbe continuata.
Il potere non gli diede mai alla testa e nemmeno i complotti riuscirono a farne un despota. Era un grandissimo lavoratore e pretese che lo fossero anche i suoi funzionari. Fu un conservatore illuminato che credeva più alla buona amministrazione che alle grandi riforme, rifuggiva dalla violenza ma non esitava a ricorrere alla forza quando necessario. Non esitò a muovere la guerra alla Dacia, odierna Romania, quando il re Decebalo gli insidiò le conquiste fatte in Germania. Condusse da grande generale la guerra vincendola e risparmiando allo sconfitto le umiliazioni che il caso prevedeva. Tanta clemenza fu mal ricompensata perché, dopo due anni Decebalo si ribellò. Questa volta Traiano, che vinse ancora, fu durissimo: requisì tutto l’oro delle miniere transilvaniche e con questo enorme bottino finanziò quattro mesi consecutivi di giochi al Circo con diecimila gladiatori e diede vita ad un programma di opere pubbliche destinate a fare del suo regno uno dei più grandi nella storia dell’ingegneria urbanistica e dell’architettura. E’ d’obbligo ricordare il nuovo porto di Ostia, l’anfiteatro di Verona, il foro Traiano, la colonna traiana che sorge si fronte alla basilica Ulpia. Nella politica agì in modo felpato riducendo il potere di designazione del senato, smorzò le velleità dei pretoriani creandosi una guardia del corpo fatta da cavalieri tratti dagli ausiliari, gli “equites singulares” e circondandosi di collaboratori giovani ed efficienti, uno dei quali fu Plinio il Giovane. Nell’ambito giudiziario, sveltì la procedura dei processi, ridusse al massimo la detenzione preventiva, proibì le denunce anonime e le cause di lesa maestà ed introdusse numerose norme ispirate a criteri di equità. In campo economico, oltre all’impegno profuso per le opere pubbliche, migliorò la burocrazia istituendo la figura del curatore.
Dopo anni di pace, ebbe la nostalgia dell’accampamento e, pur essendo sessantenne, si mise in testa di completare l’opera di Cesare in Oriente, portando i confini fino all’Oceano Indiano, visto che ridusse a “province romane” la Mesopotamia, la Persia, la Siria e l’Armenia, facendo inoltre approntare una flotta ad hoc per il Mar Rosso. Ma questi erano paesi cui non bastava lasciare una guarnigione romana per avere la pace. Già durante il suo viaggio di ritorno a Roma, scoppiarono rivolte e scaramucce ovunque. Voleva tornare indietro ma un’idropisia toracica e pericardica lo trattenne al punto da essere colpito da un infarto a Selino nel 117 d.C.
Traiano fu un grandissimo imperatore perché rispettò tutti; il potere lo seppe amministrare con grande intelligenza. Ebbe anche il grandissimo merito di aver proposto quale successore un altro grandissimo, che lasciò tracce indelebili del suo regno, al punto che gli storici non esitano a paragonarlo ad Augusto.
Publio Elio Adriano era nato ad Italica, nella Spagna Betica nel 76 d.C. ed era compaesano di Traiano, suo lontano cugino. Lo storico Dione Cassio ci dà per certo che l’avvento al trono di questo grande imperatore fosse dovuto ad un problema di corna, per quanto valore potessero avere le corna nella Roma dell’epoca. Era, infatti, nipote di Plotina, moglie di Traiano, ed amante della stessa. Il suo nome indicava la provenienza della sua famiglia, Adria, e venne a Roma chiamatovi da Traiano, forse su pressione di Plotina.
Era un giovane pieno di vita che studiava con impegno e curiosità letteratura, filosofia, matematica, medicina e musica imparando tutto piuttosto rapidamente. A Roma Traiano, che non aveva figli, gli fece sposare la nipote Vivia Sabina con la quale convisse per obbligo istituzionale. Fu infatti un matrimonio senza amore e senza figli, ma con grande rispetto da parte sua anche se si dormiva in camere separate. Questa testimonianza ci viene data da quella malalingua di Dione Cassio. Designato da Traiano, morto senza figli, aveva quarant’anni quando salì al trono. Cercò di chiudere subito le pendenze militari lasciate aperte da Traiano ritirando gli eserciti dalla Persia e dall’Armenia e creando molto malumore tra i comandanti militari che vedevano ridursi le prospettive di carriera. Una congiura di quattro di questi, della quale lui ignorava i contenuti, fu sventata dal Senato che mise a morte i congiurati. Rientrò subito a Roma fece dimenticare l’episodio al popolo, distribuendo sesterzi, divertendolo con i giochi e sgravandolo dai debiti con il fisco. Poiché cantava e dipingeva, i romani temettero che sotto questi questi comportamenti si nascondesse un secondo Nerone. Si vide poi che si abbandonava alle arti solo per riposarsi delle fatiche di scrupoloso amministratore. Le sculture ce lo hanno tramandato come un bell’uomo, alto, elegante, riccioluto. Difficile capire il suo carattere ed il suo umore perché dietro alla gentilezza si nascondeva, quando necessario, una incredibile durezza. Non credeva agli dei ma era impeccabile nella sua funzione di Pontefice Massimo perché considerava la religione un necessario puntello della società. Gli studi filosofici lo portarono verso lo stoicismo, però prese il piacere dovunque si presentasse, ma sempre con gusto raffinato. Gli piaceva conversare, specie con i dotti greci, accettava contestazioni e critiche e non amava i tanti “signorsì” che lo circondavano. Si narra che un giorno redarguisse un intellettuale gallo, il filosofo Favorino, che gli dava troppo spesso ragione. Ma questo rispose spiritosamente dicendo:”Ma un uomo che basa i suoi argomenti su trenta legioni in armi ai confini, ha sempre ragione”. Ne rise molto ed apprezzò la replica.
La sua attività fu tesa a mettere in piedi un’organizzazione burocratica cui bastasse solo la supervisione del Senato per andare avanti e per questo semplificò migliaia di leggi. Questa perfetta organizzazione interna gli consentì di viaggiare per conoscere da vicino l’impero. Chiunque se lo trovò davanti e governatori e generali dovevano mostrargli tutto della loro amministrazione. Visitò la Gallia e la Germania riorganizzando le guarnigioni, studiò a fondo i costumi degli indigeni, intravedendo per il futuro la forza esplosiva che avrebbero avuto i barbari per l’impero. Dalla Germania salpò per la Britannia ed ordinò la costruzione del “Vallo Adriano”, nient’altro che una Linea Maginot antica,visitò l’Egitto ed imbarcò un ospite di nome Antinòo che divenne il suo valletto. A Roma si preoccuparono perché il mal d’Egitto aveva già tradito Cesare e Marco Antonio. Quando Antinòo morì, non si sa se suicida o ucciso, Adriano tornò a Roma un po’ incupito, un po’ misantropo e si occupò solo di piani di ricostruzione, di letteratura e poesia. Fece rifare il Pantheon distrutto da un incendio, una villa a Tivoli completa di ogni cosa ma, sentendosi vicino alla fine e non avendo anch’egli figli, predispose per la successione il suo amico Lucio Vero che però morì prima di lui. La nuova scelta cadde su un altro grande, Antonino Pio. Intanto si fece preparare la tomba al di là del Tevere che, per essere raggiunta, fu necessario costruire il ponte Elio. Oggi questa meraviglia architettonica è conosciuta con il nome di Castel Sant’Angelo.
Quando l’edificio fu terminato, un filosofo stoico, vedendo quanto il suo amico imperatore soffrisse, gli chiese il permesso di suicidarsi. L’imperatore glielo diede dopo aver discusso con lui dell’inutilità della vita. Volendo anche lui fare la stessa cosa chiese la cicuta al suo medico che, disobbedendo, si uccise. Chiese allora ad un servo di procurargli un pugnale, ma il servo fuggì. Esclamò, allora disperato: “ecco un uomo che ha il potere di togliere la vita agli altri tranne che a sé stesso”.
Pochi giorni prima di morire scrisse un poemetto con una lirica che fu oggetto di studio di noi studenti liceali e che inizia così: “animula vagula, blandula, hospes comesque corporis…”. Morì a sessantadue anni, dopo ventuno di regno, e fu il più moderno imperatore del mondo antico.
Rese a Roma il più grande dei servigi: designò il miglior successore possibile.
Mario La Mazza
(Generale dei Carristi)