È di qualche giorno fa la notizia di un’imbarcazione in avaria soccorsa al largo di Santa Maria di Leuca con a bordo 34 migranti, tra cui 9 bambini e 5 donne, tutti di presunta nazionalità siriana. L’ennesima storia di disperazione sfociata in uno dei tristemente noti – ormai – viaggi della speranza. Fatti di cronaca quotidiani, storie di tutti i giorni, racconti carichi violenze e soprusi ma anche di voglia di un futuro migliore. E se sempre più spesso, è la Sicilia la regione che si trova a dover fare i conti con quella che è una vera e propria emergenza umanitaria, la storia dell’immigrazione in Puglia ha radici altrettanto profonde: è il 7 marzo del 1991 quando l’Italia scopre di essere una terra promessa per migliaia di Albanesi.
Quel giorno nel porto di Brindisi arrivano, a bordo di navi mercantili e di imbarcazioni di ogni tipo, 27mila migranti. Fuggono dalla crisi economica e dalla dittatura comunista in Albania. Un esodo biblico, il primo verso l’Italia, con una regione, la nostra, che improvvisamente si trova a dover affrontare un fiume umano inarrestabile, quello dei boat people albanesi, stremati, senza forze, ma ancora in grado di sognare un futuro di benessere e ricchezza. Un’altra data destinata a restare nella memoria è quella dell’8 agosto 1991, quando attracca nel porto di Bari Vlora, nave partita da Durazzo con a bordo oltre 20mila persone. La storia dell’immigrazione in Puglia inizia ufficialmente così, paradossalmente in un luogo che non è assolutamente pronto ad accogliere e dove, in pochi giorni scuole, parrocchie, centri sociali diventano punti di soccorso: non stupisce, quindi, che sia stata propria la Puglia a tenere a battesimo gli odierni centri di accoglienza – uno tra tutti il “Don Tonino Bello” di Otranto. Fino al 2001 è la regione italiana più interessata dagli sbarchi e, dunque, il laboratorio delle prassi di primo soccorso dei migranti e di controllo delle frontiere che negli anni successivi sarebbero state adottate dal Ministero dell’Interno nelle regioni, soprattutto Calabria e Sicilia, maggiormente interessate dal fenomeno.
Le province di Bari, Foggia e Lecce rappresentano i principali poli di attrazione per gli immigrati e ospitano complessivamente il 74% degli stranieri residenti: Albania (34%), Marocco (12,4%) e Cina (6,7%) le nazioni da cui provengono la maggior parte dei non europei presenti nella nostra Regione, mentre la Romania con oltre 22.633 è quella in cima alla classifica dei paesi di origine degli immigrati. Dopo un aumento costante degli scorsi anni, cala la presenza femminile, anche in ragione di una difficoltà nella ricerca del lavoro; spesso le donne sono titolari di attività proprio perché non riescono ad inserirsi nel mercato del lavoro dipendente. Caritas e Migrantes dipingono il quadro di un mercato del lavoro che richiede immigrati (tra i 30 e 40 anni), ma che poi non lavora per l’integrazione e per la garanzia dei diritti: e se, da un lato, il c.d. “racket del pomodoro” si diffonde a macchia d’olio, con stranieri che diventano veri e propri schiavi di imprenditori disonesti che li costringono a turni massacranti in campagne assolate per pochi euro al giorno, dall’altro sempre più numerosi sono gli immigrati che iniziano a delinearsi autonomamente percorsi di ripresa economica aprendo imprese: solo in Puglia i titolari di aziende non italiani sono oltre 4.000.
A fronte di tale situazione, ognuno deve fare la sua parte e il Governo “deve puntare i piedi in Europa”. Lo dichiara Irma Melini, Presidente della Commissione Immigrazione e Politiche per l’Integrazione ANCI e Consigliere comunale di Bari. Molti sono i comuni ormai al collasso. Poche, invece, sono le risposte delle regioni su questo tema: una su tutte il mancato avvio degli HUB regionali – strutture di prima accoglienza capaci di permettere dopo la “zona sbarchi” la formalizzazione della protezione. E’ necessario poi che i tavoli regionali, che devono provvedere alla programmazione sul loro territorio dell’accoglienza degli immigrati, operino in maniera efficace e che vengano istituiti nelle regioni dove ancora non lo sono. Chiaramente, non possiamo fare tutto da soli: un’azione sinergica tra le istituzioni locali, nazionali ed europee è, ora più che mai, necessaria per dare sembianze umane a una tragedia che finora – ed è questa l’assurdità – di umano ha solo chi, suo malgrado, la vive.
Maura Corrado