Spesso mi viene chiesto se esistono dei parametri istantanei per riconoscere un eventuale disturbo di apprendimento.
Se si cerca su internet si trovano molte affermazioni il più delle volte non corrispondenti al vero. E a ben vedere scritte da persone senza alcuna qualifica.
Il consiglio che spesso ripeto ad insegnanti e colleghi è sempre lo stesso: imparare a distinguere una difficoltà da un disturbo.
L’acronimo DSA significa appunto Disturbo Specifico di Apprendimento (almeno quando è declinato al singolare) e ciò implica un intervento, sia che interessi la dislessia, che la disgrafia e disortografia, o ancora la discalculia.
Esistono certamente, come è giusto che ci si aspetti, degli indicatori capaci di accendere l’intuizione dell’insegnante (soprattutto) o di chi aiuta il bambino nelle attività didattiche (come i doposcuola che hanno conosciuto nell’ultimo decennio una grande fioritura).
Tuttavia, l’inesperienza, oppure situazioni particolari, potrebbero indurci in errore nel valutare la possibilità di una diagnosi.
Se gli studi sui DSA e la conseguente legge 170/2010 hanno spostato il focus valutativo dell’insegnante da “bambini svogliati” a “bambini con disturbo”, invito comunque alla calma. In mezzo potrebbe collocarsi una difficoltà che è ben altra cosa rispetto al disturbo.
Quindi il mio consiglio è questo: valutare se si ha davanti innanzitutto una difficoltà.
Ma come fare?
La difficoltà non è innata, come invece lo è il disturbo, e si può presentare in momenti scolastici differenti.
Per cui il nostro bambino potrebbe manifestare, ad esempio, una difficoltà di riporto in colonna (nel caso delle addizioni), malgrado sia sempre riuscito a svolgere attività precedenti del programma di matematica.
Se il bambino avesse avuto un disturbo nelle abilità matematica che chiamiamo discalculia, con certezza posso affermare che avrebbe avuto difficoltà già a riconoscere il valore posizionale della cifra in un numero come 354 (confondendo decine e unità, o centinaia, ecc).
Inoltre, nel caso della difficoltà, una volta che il bambino viene aiutato, (per cui comprende il meccanismo del riporto) di fatto sarà in grado di applicarlo a qualunque altra operazione, e una volta giunti alla moltiplicazione (pur cambiando tipo di operazione matematica) sarà in grado di eseguirla. In tal modo si rende automatizzabile il processo che porta alla conclusione dell’operazione matematica.
Nel cass del disturbo tutto ciò non è fattibile.
Non basterà spiegare e rispiegare: non è l’esercizio che aiuta a migliorare le prestazioni, ma strategie mirate, funzionali allo sviluppo delle abilità del bambino sempre a tutela della sua motivazione e del complesso mondo emozionale, di cui avremo modo di parlare in futuro.
Gilda Brescia