di Giorgio Mantovano
Quando la “Storia di Lecce”, opera magistrale di Pietro Palumbo, comparve per la prima volta, nel 1910, il suo autore aveva già superato i settant’anni. Era già uno storico affermato che aveva firmato importanti pubblicazioni. Nato a Francavilla Fontana il 16 dicembre del 1839, fu adottato dalla città di Lecce dove giunse, giovanissimo, nel 1851 per studiare nel Collegio che i Gesuiti, diretti da Padre Giovan Battista Jazzeolla, avevano poco prima ripreso a dirigere. Erano gli anni in cui il dorico prospetto, che si ammira nella bella piazzetta intitolata a Giosuè Carducci, divenne austero e solenne. In quel Liceo classico, che verrà poi intitolato a Giuseppe Palmieri, il dodicenne Pietro, sin da subito si distinse brillantemente nei pubblici “saggi” che ogni anno si tenevano in quell’Istituto, noto per l’ineccepibile serietà del metodo didattico e per la qualità del corpo docente. Pietro seguì i corsi di scuola media e liceali, studiando umanità, retorica e scienza. Strinse una fraterna amicizia, destinata a durare tutta la vita, con Cosimo De Giorgi, compagno di classe e di camerata, poi illustre medico e scienziato. Uscito dal collegio nel 1858, Pietro ritornò a Francavilla, dove sposò Clotilde Petruni dalla quale ebbe due figli. “Storia di Francavilla” fu la sua opera prima, elogiata dal Cantù e dal Tommaseo. Presto, la sua giovane esistenza fu scossa dalla prematura scomparsa della moglie e della figlia secondogenita. Gli studi storici e letterari lo salvarono da una profonda depressione. Dopo dodici anni di vedovanza si sposò con Petronilla Caroli, che gli diede un figlio, Giovanni, poi magistrato e poeta. Fu sindaco della sua città per due volte, distinguendosi per rettitudine morale e dedizione alla collettività. Nel 1886 essendosi prodigato lodevolmente a beneficio delle vittime del colera, il ministro dell’interno, Francesco Crispi, gli conferì la grande medaglia riservata ai maggiori benemeriti della salute pubblica. Abbandonata la vita politica, si immerse negli studi storici e letterari ed a Lecce entrò a far parte della Commissione provinciale dei monumenti storici, presieduta dal Duca Sigismondo Castromediano. Raccolse l’eredità spirituale dello storico Luigi Giuseppe De Simone, condividendo il rigoroso studio delle fonti. Nel 1903 fondò la Rivista Storica Salentina, che fu prestigiosa palestra per tanti studiosi. Nel primo fascicolo vi scrissero, oltre al Palumbo, Filippo Bacile di Castiglione, Baldassarre Terribile, Umberto Congedo, Nicola Bernardini, Ferruccio Guerrieri e Cosimo De Giorgi. Fu questo il primo nucleo di collaboratori, ai quali poi se ne aggiunsero altri e valenti negli anni successivi. Si fece editore delle Cronache Leccesi, del Panettera, del Braccio, del Cino e del Piccinni, la cui pubblicazione assicurò alla sua rivista.
In “ Storia di Lecce”, opera senile, trapelò, senza sforzo, il vigore della sintesi, l’organicità del disegno e la scioltezza della sua prosa. Nella premessa, egli spiegò di aver scritto quel libro con l’intento di colmare una lacuna che, purtroppo, si verificava nella storia della nostra città. Intendeva raccogliere in un volume quanto si era scritto in monografie varie, riflettenti, però, “un sol periodo, senza tener conto della storia generale”. Era consapevole che i fatti, pur di una sola città, dovessero essere “innestati a quelli del regno dal qual dipendono, anzi d’Italia intera da cui prendono lume ed avviamento”. E non si trattò di impresa facile. Al contrario, gli apparve da subito irta di difficoltà che cercò di superare componendo il lavoro non già, come sino ad allora era stato fatto, “sotto gli archi delle chiese e lungo i corridoi delle abbazie e dei grandi conventi”, ma con le migliori intenzioni dello studioso disposto ad affrontare il rigore della critica storica. Fu, tuttavia, consapevole di non aver fatto un lavoro completo per più motivi, quali, l’insoluta oscurità dei problemi legati alle origini della città; l’analisi sintetica di numerosi momenti che richiedevano, invece, analitici accertamenti; l’aver arrestato il racconto alla caduta del regime borbonico. La “Storia di Lecce”, ci ha raccontato Michele Paone, non piacque particolarmente agli studiosi locali ai quali quel modo moderno di narrare, non in stile aulico ma in forma di bozzetti, parve quasi la registrazione di eventi di cronaca o di aneddoti eruditi. Anche al Palumbo, studioso rigoroso, fu difficile sottrarsi alla triste regola “Nemo propheta in patria sua”. Se è pur vero che quell’opera non fu esente da imperfezioni, è indiscutibile che si trattò di un lavoro di grande pregio, privo di enfasi retoriche e di piaggerie, che non poteva essere compreso appieno dai contemporanei, la cui formazione peccava, spesso, di non poca superficialità. I tempi erano ancora poco inclini a leggere il frammento di storia locale nell’ambito di uno scenario di storia più generale, il solo in grado di spiegare situazioni periferiche altrimenti oscure. Quel modo di narrare del Palumbo possedeva non poca modernità, essendo capace, senza indulgere in cortigianeschi panegirici, di regalarci anche la connotazione spirituale, gli atteggiamenti, le mode ed i limiti dei momenti storici raccontati. Altre sue opere di grande rilievo furono, tra le tante, i volumi del “Risorgimento Salentino”, di “Lecce vecchia”, de “L’Onorevole Gaetano Brunetti e i suoi tempi”, opera quest’ultima pubblicata postuma, dopo la sua scomparsa nel 1915. Nella seconda metà dell’Ottocento, lo studioso Palumbo intrattenne con la maggior parte dei personaggi, che vivono nelle sue pagine, rapporti di conoscenza e di proficua frequentazione. Si pensi alla stretta amicizia con il Castromediano che, uscito dalla politica, fu tra i più attivi nel rinnovare la cultura salentina, sforzandosi di laicizzarla, essendo stata sino ad allora essenzialmente gesuitica, e di dotarla di istituti e mezzi fino ad allora inesistenti (il Museo, la Biblioteca, la Commissione conservatrice dei monumenti). Ma il Palumbo ebbe anche consuetudine con Michelangelo Verri, l’armiere dei rivoluzionari del 1848. Intrattenne amicizia con la famiglia di Achille Bortone e di Oronzo De Donno, delle cui carte preziose poté avvalersi per varie ricostruzioni storiche; con il patriota e giurista Giuseppe Pisanelli, di cui raccontò le vicende anche delle ultime campagne elettorali; con Gaetano Brunetti, che ebbe accanto nel Consiglio Provinciale di Terra d’Otranto. Quando morì, il 20 luglio 1915, l’amico di una vita, Cosimo De Giorgi, circondato da una folla di cittadini ed autorità, pronunziò queste brevi parole che mi pare doveroso richiamare: “ ….Io non sono venuto qui per parlare di te, della tua vita, delle tue virtù, delle tue opere; per far questo si richiede mente più serena ed animo più tranquillo ! Io sono venuto soltanto per darti l’ultimo addio, il mesto addio di uno che ti ha sempre amato, che ha diviso con te gioie e dolori, di uno che crede, come tu hai creduto, che questa nostra vita non può essere fine a sé medesima, ma bensì un cammino ed una ascensione ad una meta migliore! Riposa ora dopo sì lungo e intenso lavoro; e godi quella pace che il mondo non può dare; e nella vita di oltre tomba ricordati di chi anela raggiungerti nella meta luminosa del tuo Cosimo De Giorgi”.
Giorgio Mantovano