Alla scoperta del Salento: Il Presepe nella tradizione leccese della cartapesta

LECCE – Le origini della cartapesta sono incerte e si perdono nella notte dei tempi. Pare che in Occidente l’arte di plasticare la carta sia giunta in epoca basso- medioevale da qualche località orientale, ivi appresa forse da un veneziano, ai tempi delle repubbliche marinare. Ma si tratta di supposizioni, poiché poco e in maniera reticente dicono gli studi, invero scarsi, che sono stati dedicati alle origini della cartapesta.

Comunque in Italia opere di cartapesta sono già presenti nel XV secolo e in Terra d’Otranto sicuramente due secoli dopo con l’Hecce Homo, seicentesco, posseduto in casa Papa, a Squinzano, con la Madonna che si conserva nel castello di Cavallino, realizzata in epoca precedente al 1647, e con un San Francesco a Salice Salentino, opera attribuibile ad un artigiano vissuto nella prima metà del XVIII secolo”. Le notizie più antiche dell’arte della cartapesta nella città di Lecce, quindi, risalgono al XVII secolo, quando cioè il moltiplicarsi dei templi è delle fraterie e la universalità della Compagnia di Gesù dettero un rapido sviluppo al culto esterno e domandarono alle arti una miriade di lavori, dovunque e comunque concepiti.

Probabilmente le origini dell’artigianato leccese della cartapesta sono da ricercare nel temperamento e nello spirito estroso degli artisti locali, perché non è azzardato pensare che, appresa a Lecce la tecnica di plasticare la carta, quest’arte si sia sviluppata in concomitanza con quella degli scalpellini, creatori in pietra leccese di tanti splendidi monumenti, statue e motivi decorativi.

Tra il Seicento ed il secolo successivo l’arte della cartapesta, forse proveniente da Napoli, abbiam detto che è operante a Lecce, dove acquista particolari tecniche di lavorazione e di artistica impostazione, aspetti, questi, che non sfuggirono all’osservazione dello storico tedesco Gregorovius durante la sua permanenza nel capoluogo salentino.

Al di là delle ipotesi e di altre considerazioni che non argomentiamo, considerata l’economia del presente lavoro, le fonti di cui disponiamo ci indicano come primo statuario di un certo rilievo operante a Lecce il maestro Pietro Surgente (1742-1827), detto “Mesciu Pietru de li Cristi” forse perché modellò un considerevole numero di statue sacre delle quali conosciamo solo il S. Lorenzo, datato e firmato nel 1782, restaurato da Antonio Malecore nel 1982. La statua del S. Lorenzo, la più antica che possieda data e firma, è allogata nella chiesa parrocchiale di Lizzanello.

Il duca Sigismondo Castromediano in un suo scritto rammenta il Surgente e ce lo descrive come egli, uscendo coi compagni di collegio a passeggiare in città, lo incontrava presso la bottega al n° 16 di via Vittorio Emanuele, “vecchio e con gli occhiali al naso… modellar mani e teste in creta, aggiungendovi poi in carta membra e vesti compe tenti”4S. La bottega del Surgente fu frequentata da numerosi discepoli, tra i quali troviamo Francesco Calabrese (1802-1877), Vincenzo

Oronzo Greco, Luigi Guerra e Antonio Maccagnani (1809-1892). Con i discepoli di “Mesciu Pietru de li Cristi’ entriamo ormai nella storia documentata della cartapesta salentina.

Francesco Calabrese, detto “Mesciu Chiccu Pierdifumu”, ebbe bottega anche in Piazza Vittorio Emanuele, al piano terra del palazzo che fu dei Cosma. Incrementò la diffusione dei pupi per il presepe coadiuvato dalla moglie Assunta Rizzo che li “vestiva”. L’attività di questo artigiano è più importante di quanto non possa sembrare, non tanto per il valore delle sue opere quanto perché da lui possiamo far iniziare uno dei filoni più significativi della leccese tradizione della cartapesta.

Luigi Guerra, detto “Lu Turdu Mazzu”, ebbe bottega in via Ascanio Grandi n. 4. Egli affermava di aver “rubato” l’arte vedendo lavorare il maestro “Mesciu Pietru”. Analoga dichiarazione farà poi il De Lucrezi parlando del Maccagnani. Ciò sta ad indicare come i segreti e le tecniche del mestiere fossero gelosamente custodite da chi con disegno in Lecce con Andrea Majola (celebrato per la miniatura in avorio), ed in Roma con Filippo Cipolla”so. Altro maestro del De Lucrezi pare sia stato Francesco Calabrese, ossia “Mesciu Chiccu Pierdifumu” “‘che aveva la sua botteguccia, con il balconcino, dirimpetto alla drogheria Olita verso la via, cosiddetta, del Bambino”, in cui oltre al De Lucrezi furono apprendisti: Salvatore Franco, Basilio Bandello, Lazzaro e Francesco Cosma, Quest’ultimo conosciutissimo con il nomignolo di “Mesciu Chiccucurtu”, evidentemente per la sua bassa statura.

Il De Lucrezi non appartenne mai alla scuola del Maccagnani, la bottega del quale frequentò da bambino e per breve tempo, dalla quale se ne andò come tanti altri in quanto il maestro, geloso della sua arte, si nascondeva addirittura quando doveva compiere le fasi più delicate del lavoro.

Tornato a Lecce impiantò la sua modesta bottega di statuario, e diede impulso quasi industriale all’arte della cartapesta. La bottega del De Lucrezi, posta al vicolo dei Marescallo, fu un “semenzaio di artisti di plastica cartacea”. Fra questi ricordiamo: Francesco Malecore, suo capogiovine, Domenico Conte, Luigi Giannotta, Oronzo De Simone, Gaetano Sergio, Marcello Castellucci, Giuseppe Monaco, Carlo Mara-zia, Vincenzo e Giulio Caprioli e, i più apprezzati, Andrea De Pascalis, Giuseppe Manzo e Salvatore Sacquegna.

Presso il laboratorio del De Lucrezi si formò ben presto un assiduo sodalizio culturale poiché ivi convenivano poeti, letterati e artisti, dei cui consigli egli si avvalse per impostare e, addirittura, correggere le “forme”. “In modo che il suo gran merito fra gli altri, è stato quello di rendere la sua bottega una collezione, un museo di “forme” che egli metteva in mano ai suoi discepoli, quasi tesoro, a cui ricorreva egli stesso come un giovane medico ricorre alle formule del ricettario”.

Alla sua morte la bottega, divenuta “stabilimento per la cospicua produzione industriale che seppe conciliare l’arte con le esigenze del commercio, fu ereditata da Marcello Castellucci e Giuseppe Croce.

Un altro “ingegno vigoroso, capace di intendere la voce che saliva dalla masse… tempra audace disposta a sfidare le opposizioni che, o per gelosia, o per timore, potevano venirgli dalla vecchia scuola” fu Giovanni Andrea De Pascalis (1862-1895). Fin da giovanissimo godeva fama anche all’estero perché aveva saputo dare alla cartapesta “un sentimento mondano che gli accrebbe la rinomanza”. Egli “apprese i primi elementi del disegno e della modellatura da Anselmo De Simone nello Stabilimento di ceramica Paladini in S. Pietro in Lama e l’arte della cartapesta nella “bottega” del De Lucrezi, “Si rivelò nel 1885 con due statuette decorative fatte per il Battistero della Cattedrale di Lecce: Ezechiele e Mosè, il veggente e il legislatore. Aveva messo su bottega da poco in società con Giuseppe Manzo, dal quale si divise dopo cinque anni di lavoro comune, invasato dalla convinzione che “la vera opera d’arte dev’essere espressione di un solo pensiero e di una sola volontà”.

Epigoni della cartapesta, a Lecce, furono Giuseppe Manzo (1849-1942), Luigi Guacci (1871-1934), Raffaele Caretta (1871-1950). Il Guacci “frequentò la scuola di disegno del Comune sotto l’insegnamento dei pittori Vincenzo Conte e Alfredo Maccagnani. Da Giuseppe De Cupertinis apprese l’arte dell’intaglio*6. Nel 1888 vinse una borsa di studio bandita dall’Amministrazione Provinciale di Lecce e, protetto dal barone Bacile, si iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Roma, dove ben presto si distinse per applicazione e creatività. Rientrato a Lecce fondò nel 1897, in collaborazione con l’amico Oronzo Valentini, il suo grande ‘stabilimento”, denominato “Istituto di Arti Plastiche” al Villino Liguori, versione industriale dell’artigianale “bottega” in cui presto vi si raccolsero, per lavorare sotto la sua direzione artistica, oltre ottanta cartapestai e giovani delle botteghe più accreditate del tempo.

Nel suo “stabilimento-istituto” egli specializzò i suoi dipendenti in modo che la statua, appena pronta per essere imballata e spedita al committente, risultasse opera di tutti modellata nelle forme ricavate su modelli del “Maestro” e rifinita sotto la sua direzione artistica. Tuttavia una organizzazione industriale pianificata gli permise, così, la produzione di statue a prezzi di concorrenza, e le inserzioni pubblicitarie della “Ditta Luigi Guacci” ‘ apparvero su molti giornali, perfino su “L’Osservatore Romano

‘. Lo “stabilimento” gli sopravvisse fino al 1948 ereditato dal figlio Gaetano che, vittima dell’evoluzione industriale imposta dal padre all’arte della cartapesta esercitata nelle “botteghe”, per riscattare gran parte della produzione paterna, modello le proprie statue stilizzandole e colorandole con un unico colore tenue e sfumato spoglio delle arabescature tradizionali. Presto, però, si arrese all’ostracismo delle autorità ecclesiastiche e chiuse bottega.

Sulla breccia rimasero gli ultimi epigoni dell’arte sacra salentina: Caretta (padre e figlio), Sacquegna, Malecore (padre e figlio), i fratelli Longo, Angelo Capoccia e Oronzo Solombrino.

Raffaele Caretta, allievo-apprendista del Maccagnani, fu discepolo prima e “capogiovane” poi del Manzo fino al 1895, anno in cui, morto il

De Pascalis, aprì la sua “bottega” al n. 8 sulla Piazzetta Panzera (sotto il palazzo Tinelli), che trentatré anni dopo avrebbe trasferito al n. 2 sulla via Dei Sotterranei per trasmetterla in eredità al figlio Giovanni. Il meglio di sé lo espresse nei quadri ad alto e basso rilievo per altare: “maestro” accostando abilmente nella composizione, alla maniera del Manzo, suo, scenografia, pittura e scultura, ora con sfarzo, ora con discrezione, impegnato in ogni circostanza a superare i limiti del proprio autodidattismo dei colori, la naturalezza delle pieghe, la cura di ogni minimo particolare.

Perfetta l’armonia delle linee, l’intonazione committenti le sue opere “è la “nota” comune a tutte le lettere di consenso ricevute dai committenti le sue opere. Giuseppe Manzo ancor ragazzo lavorò nello Stabilimento di Ceramica Paladini in San Pietro in Lama, dove apprese i primi elementi di disegno e modellatura da Anselmo De Simone, e con il De Pascalis cominciò a modellare in cartapesta nella “bottega” del De Lucrezi.

Mise su bottega col De Pascalis, dal quale fu abbandonato dopo cinque anni di lavoro comune. Come il Guacci ed il Caretta ebbe ambiti premi e riconoscimenti, tuttavia egli, che lavorò sino al dicembre 1959, nella sua “bottega” di via Paladini (sotto il Palazzo Romano), fu il meno predisposto all’industrializzazione dell’arte” appresa nella “bottega” del De Lucrezi. Il successo riscosso dalla sua opera in concorso con le statue dei cartapestai suoi giovani discepoli e coetanei premiò la sua fede nell’ideale artistico-artigianale che più tardi decadde violentato dalla istituzione di “Stabilimenti” in cui si modellò la cartapesta quasi alla maniera del cartone romano o del carton pierre francese.

Un prezioso saggio tratto da “Il Presepe nella Storia e nell’arte” di Mario De Marco, Edizioni La Piramide – 1985