D’in su la vetta della torre antica, / Passero solitario, alla campagna / Cantando vai finché non more il giorno; / Ed erra l’armonia per questa valle. / Primavera dintorno / Brilla nell’aria, e per li campi esulta, / Sì ch’a mirarla intenerisce il core: intenerisce il cuore, sentir cantare di poesia Giuseppe Greco, il poeta solitario e felice proprio come il “passero solitario” di Leopardi. E la sublime poesia accomuna esseri così distanti, eppur vicini.
Giuseppe Greco è un artista a tutto tondo, si potrebbe dire utilizzando un linguaggio comune; ma, Giuseppe di comune non ha nulla, rappresenta la poesia, si identifica con la Natura, emerge nella semplicità e nella sua onesta e pura presenza, si impadronisce della scena come il passero e poi vola via.
Si esprime col suo dialetto, quello di Parabita, e nell’autenticità della lingua parla della bellezza della vita, dei colori, della luna, delle stelle, della terra del Salento. Si legge: «Mmasura mmasura le stelle / ccumenza ccumenza cu ppitti / raccoji le cose cchiu’ belle / te petre t’i canti / t’i rucchi / t’u mare t’i fiuri t’u core / ‘nturtìja pensieri e ssanducchi / mmanéscia ‘na storia t’amore». Danza il creato al rintocco di un “t’i” e gioisce d’amore, mentre “conta le stelle / incomincia a dipingere / raccogli le cose più belle / delle pietre dei canti / dei colombi / del mare dei fiori del cuore/ avvoltola pensieri e singhiozzi / imbandisci una storia d’amore”.
Come Pietro Gatti, non rinnega le sue radici, e ben radicato nella terra rossa salentina la dipinge con versi, a volte a tinte scure, altre intense di colori sgargianti, e ne crea meravigliosi capolavori. Mai cupo, con la forza di un adulto e l’entusiasmo di un bambino stupisce. Così incantato, guardi la sua luna: «’A luna jeu tie l’addri e lle cose / la terra e llu mare / cu lli maluni ‘ perti ‘ ssusu ‘a banca / e ccu ‘nna rosa tisa intr’a nnu calu / russa prasciata sula comu ll’addre / luntane pe’ nnu bballu te lu core». Improvvisamente, si apre uno scenario e lì sul tavolo, come il canestro di frutta del Caravaggio, appaiono “le angurie spaccate / e una rosa dritta in un boccale / rossa contenta, sola come le altre / lontane per un ballo del cuore”. E la luna s’imbarazza, diventa rossa, quando tutti la guardano e, come una bellissima donna, si pavoneggia distante dal resto del mondo.
La poesia è innanzitutto pittura, coreografia, musica e calligrafia dell’animo (Maxence Fermine). La sua poesia è al tempo stesso quadro, danza, musica e scrittura della bellezza. Non solo, in ogni verso del nostro Giuseppe converge e s’intreccia composita una struttura mirabolante che richiama la magnificenza delle opere create da Gaudì; il tutto, però, è perfettamente in equilibrio con una leggerezza e naturalezza che saziano appieno il lettore. E satollo, resta fermo a contemplare il quadro poetico.
Giuseppe Greco di insolito ha anche il modo di donare poesia e lo fa con piccole immaginette pergamenate oppure con libretti che denotano la sua umiltà, la delicatezza, e al contempo l’esigenza di esserci e raccontare della vita. Muovendo da uno schizzo, ha disegnato la primavera e me ne ha fatto dono: tre rose rosse, il mare, i gabbiani, il sole, e “ppicca picca te mare”. Incantevole pittore, disegnatore, poeta, uomo e nulla di più né di diverso. In lui si sposano perfettamente l’uomo e il poeta, e vivono senza pestarsi i piedi, l’uno accanto all’altro, l’uno nell’altro.
Leggendo “A lla ‘mpete” di Giuseppe, si può solo muoversi a piedi nudi, perché verso dopo verso si possano sentire i passi percorsi dal poeta, quanta terra calpestata, direbbe Antonio Verri, e come costui, imperversa il grande amore per la donna, sacro direi, e non è un caso che in ogni elemento naturale presente nella silloge di Greco primeggia il femminile. La donna è motivo di ispirazione poetica, è ragione di esistenza.
Comunica allegria, sprizza gioia ogni verso, come angeli in coro le poesie di Giuseppe Greco cantano inni leggiadri. E così come i “cardilli” passano il tempo, anche il lettore ballerà con loro, volteggiando felice nell’aria, nei colori che legano al ricordo di una passeggiata in riva al mare: «Puru ‘i cardilli sguàriene cu nnui / e nnui ne canuscimu comu iddhri / ballandu ‘mmenzu ‘ll’aria intr’i colori / t’ogni rricordu rripa ripa ‘mmare». (p. 43)
Alessandra Peluso