“Se veniste da queste parti prendendo qualsiasi strada, partendo da qualsiasi posto, in qualunque ora e in qualunque stagione, sarebbe sempre lo stesso: vi toccherebbe spogliarvi dei sensi e della ragione” (Thomas S. Eliot); ebbene sì, spogliatevi dei sensi e della ragione e profilate le anime all’accoglienza, senza confini, senza limiti, ma con la finitudine del limite che vede per questi spazi comunicanti Giovanni Leuzzi e così scrive: “Repùtu pe lle chiazze salentine. Lamento funebre per le piazze rurali del Salento”.
Per un letterato e storico del Meridione, soprattutto amante della terra salentina, quale è Leuzzi, veder morire la piazza, l’agorà per i greci, centro propulsore di affari, di politica, di lavoro, di idee, di amicizie è drammatico. Un tempo. Oggi le piazze rurali non esistono più in gran parte dei paesi salentini, e il professore Leuzzi lo sa bene e per tale ragione e con la voglia di riscatto dedica un’ode alla bellezza della piazza, alla meraviglia di uno spicchio di Salento che è stato e giace sotto le ceneri spente da tempo. Sembra di leggere l’Ode su un’urna greca di John Keats e si sprofonda in un’atmosfera di malinconia, di nostalgia, di grandezza, di bellezza.
In sostanza, Giovanni Leuzzi attraverso un poema in ottave nel vernacolo del paese di Cutrofiano, disposto in diciotto canti con traduzione italiana, fa rivivere la memoria, il ricordo della vita che in passato si svolgeva nelle piazze salentine. Affascinante la narrazione, il dialogo sempre vivo tra io narrante e lettore, un libro edito da Mario Congedo Editore impreziosito da foto, come quelle delle massaie, delle tradizioni, degli usi e costumi di una terra che, sembra urlare Leuzzi, le nuove generazioni devono conoscere per non perderne l’identità, la memoria. E così, parla del Sindaco del dopoguerra don Oronzo Benegiamo, generale medico veterinario, “il cui illustre figlio è il noto chirurgo don Achille, sempre presente in Municipio”; in piazza c’era anche il circolo ACLI, una bella e grossa associazione di artigiani, pensionati e contadini, tutti coesi e impegnati per i loro diritti” (p. 146).
Si intreccia attorno alla piazza la vita rurale, all’autenticità della vita contadina, la musica, il gioco. L’autore sottolinea nell’opera in questione il ruolo delle donne e dei maschi, della famiglia, del lavoro, evidenziandone i mutamenti per via della rivoluzione industriale e della nascita della borghesia, smantellando ciò che erano in un certo senso i punti fermi, la centralità del focolare domestico, il ruolo della donna che, ad esempio, “si doveva tenere raccolta in casa, intenta al telaio e al riscaldamento del letto e con la pentola di rame sempre sotto il camino” (p. 85).
È presente, emerge a chiare lettere il desiderio di raccontare perché i ragazzi, i giovani sappiano. È prorompente la passione spasmodica per la propria terra, le capacità e le competenze notevoli di saper narrare la storia in un modo insolito per l’odierno che cede ben volentieri il passo alle contingenze, all’avanguardia tecnologica, perdendo però di vista ciò che è stato e che certamente non ritornerà e non è opportuno forse che ritorni; tuttavia, pare necessario invece riprenderne i valori autentici di una civiltà perduta. Onestà, sincerità, confronto, comunicazione, rispetto, solidarietà, vergogna: virtù obsolete nel contemporaneo.
Giovanni Leuzzi grazie a “Repùtu”, opera prestigiosa, sembra dire al lettore di svegliarsi, di lasciare i cellulari, i computer, e frequentare come in passato le piazze, quando si discuteva di politica, si cercava lavoro, si giocava, si concentrava l’umanità che oggi, ahimè in molti paesi del Salento, viene a mancare. Una condanna al presente che è assente, che vive la fugacità del tempo senza darne il giusto valore, subendo gli accadimenti e spegnendo l’esistenza che non è vita: “nulla è più degno di un uomo del saper tramutare la propria esistenza in una vita”. Qui, non c’è solo Simmel, o Camus, ma l’intera letteratura salentina che da sempre grida con versi e prosa affinché si dia senso e significato all’umano vivere. Cito fra tutti Antonio Errico, in qualità di portatore sano di amore per la propria terra, leggendo “Viaggio a Finibusterrae” ad esempio, si impara a sognare, si riacciuffa il ricordo, dolcemente nostalgico per carpire il sogno presente e garantire un futuro degno di essere vissuto.
In fondo, la cultura è anche questo, è una relazione che non può scindersi, slabbrarsi mai se si vuol essere coesi e vincere le difficoltà; si fonda, giustappunto, sulle relazioni tra individuo e società percorrendo il ponte del passato e del presente per giungere verso un prossimo con lungimiranza, saggezza e consapevolezza di ciò che si è e si è stati. Il salentino oggi deve avvertire l’urgenza di conoscere le proprie radici, valutarle, tramandarle senza paura, con onore e con forza se non vorrà smarrirsi per sempre.
E allora, vi auguro una saggia lettura con “Repùtu pe lle chiazze salentine. Lamento funebre per le piazze rurali del Salento” di Giovanni Leuzzi!
Alessandra Peluso