La mia arte nasce dall’ esigenza di raccontare le storie delle donne che ho incontrato durante la mia attività professionale. L’esigenza è mia perché anche io ho sofferto per i loro racconti e la condivisione di questa sofferenza, per me, è un po’ come spalmare il loro dolore sul pane del mondo per affievolirlo.
Esse hanno condiviso un pezzo della loro triste vita con me, io con voi e quello che resta del loro dolore, da atroce e senza speranza, diviene, finalmente, sopportabile per il sol fatto di essere condiviso.
Alcune di loro sono riuscite a spezzare la catena del dolore e ora vivono un amore vero. Talune, quell’amore, non l’hanno ancora incontrato perché vivono nel limbo di chi non ha cancellato del tutto gli effetti nefasti del dolore provocato nel tracciato del loro cuore.
Molte di esse sono diventate persone indispensabili nella mia vita così come io sono sicura di esserlo per loro.
La sofferenza che ho letto nei loro occhi nei primi giorni in cui la forza della disperazione le ha condotte nel mio studio è svanita nel tempo grazie alla consapevolezza di sé che acquisivano giorno dopo giorno anche in ragione dei primi evidenti risultati processuali. La maggior parte di esse, in prima battuta, aveva serie difficoltà a raccontarmi la verità dei fatti perché si riteneva responsabile dei comportamenti violenti del compagno o, peggio ancora, responsabile per aver scatenato la sua ira pretendendo di far valere i propri diritti. Non credevano di averne, di diritti. Non è stato facile, per me, conquistare la loro fiducia, farmi raccontare la verità assoluta degli avvenimenti – o qualcosa che fosse molto vicino a essa- anche di quelli privi del minimo sindacale della decenza umana. Il senso della vita e la volontà di veder trionfare la giustizia che le ha spinte a trovare un avvocato con cui intraprendere un giudizio contro i loro aguzzini, spesso cedevano il passo alla vergogna e alla disaffezione nei confronti della loro stessa dignità. A me è bastato essere sempre lì, disposta ad ascoltarle e a far capire loro che nessuna battaglia è mai stata vinta senza la determinazione mista a un pizzico di egoismo. Nulla, di tutto ciò che avevano provato, aveva a che fare con l’amore o con la passione, sentimenti questi, che rinviano a nobili stati d’animo o a imprese eroiche mentre i loro aguzzini, di eroico, non avevano proprio nulla. Anche il loro di amore, seppur nell’inconscio, era morto. Non si può amare, infatti, chi non usa amore nei nostri confronti. La dignità e l’amore devono poter camminare di pari passo. Non esiste amore nella sottomissione. Quel sentimento si chiama paura. Paura di se stessi, in primo luogo, paura di non farcela da sole, paura di non avere i mezzi economici per poter sopravvivere, paura di scatenare un putiferio nella famiglia, paura di far soffrire i figli, paura di far soffrire le famiglie d’origine. Paura con la lettera P maiuscola. Conquistata la loro fiducia, le ho rassicurate sul fatto che io avrei messo la testa e le nozioni di diritto pur pretendendo che la forza di combattere venisse sempre da loro.
Diritto e determinazione erano – e sono- un binomio imprescindibile senza il quale i loro aguzzini sarebbero sopravvissuti -e sopravviveranno nei secoli a venire- a loro stesse e alla loro progenie.
Il male che si fa non solo torna indietro ma, nei casi di violenza familiare, va anche avanti. Si trasmette, come se fosse una malattia genetica, un patrimonio di cromosomi malati radicati nella testa, nel cuore e nel corpo.
Quella violenza si sarebbe tramandata, purtroppo anche per colpa loro, alle loro discendenze. E gli occhi di un figlio sanno dire molto di più di un consiglio legale.
A volte, alcune di esse, tornavano a stare con i loro aguzzini perché, ingenuamente, si convincevano di poterli cambiare. Ma chi nasce carnefice non cambia mai. A volte ci tornavano con il solo scopo di lasciarsi meglio. In entrambi i casi, ogni ritorno era un pretesto per scappare da loro stesse e dalla responsabilità che avevano nei confronti della propria dignità. Alla fine, dopo l’ennesimo schiaffo che ricevevano dal carnefice e dalla vita, si sono tutte salvate e hanno mutato la loro triste quotidianità in speranza di poter, finalmente, vedere qualche raggio di sole.
La speranza, si sa, ha delle ali grandi.
La speranza è un sogno a occhi aperti che sa debellare le paure che tormentano l’anima. E in questa battaglia tra l’inconscio e la consapevolezza non può che vincere quest’ultima.
Il mio compito era quello di spiegare a un bambino che il fuoco che brucia è destinato a uccidere. Scottarsi non è mortale ma aggiungere ustioni a un corpo già martoriato, porta necessariamente al declino di se stesse e delle generazioni future. Chi ha visto violenza agisce secondo le modalità che ha imparato.
Qualcuna, purtroppo, non ce l’ha fatta. Qualcuna è stata uccisa e non ha visto il domani né cullato sogni di speranza di poter vedere cambiato quella piccola isola che è la famiglia. Ed è a queste donne che ho dedicato questi versi.
“Mi hai spezzato i capelli. Ho messo una parrucca per coprire la vergogna. Hai inferto ferite sul mio corpo. Il tempo le ha cicatrizzate. Hai diviso il mio cuore in due. Un taglio netto. Non ti sei preoccupato di indicarmi la cura che mi guarisse da te, certo com’eri che uccidermi dentro e fuori fosse un tuo diritto. Ed era la morte che mi facevi portare dentro che mi ha ucciso per prima. Ringrazio la tua mano che, alla fine, mi ha separato da te. Ora sono finalmente in pace”.
Le ho viste, le ho ascoltate, le ho difese.
E, ora, le dipingo.
di Caterina Rizzelli