“allo specchio”: guardarsi allo specchio non per compiacerci come Narciso, ma per conoscerci osservandoci; per ipotizzare motivi alla base dei comportamenti e delle modalità con cui ci poniamo in relazione con gli altri, con noi stessi, con gli oggetti; per comprendere il senso di alcuni modi di dire, di gesti e mimiche che esprimiamo, di posture che assumiamo.
Nei panni degli altri
Si vedevano migranti, veri o falsi, potevano essere infatti reporter che si dichiaravano migranti per verificare la reazione della gente; si vedevano migranti affrontare la campagna di Manduria, si allontanavano dal campo di “accoglienza”; speravano, così appariva, di raggiungere l’Europa risalendo la nostra penisola. I più avveduti, o forse con qualche soldo, cercavano la stazione ferroviaria.
Incontravano contadini: uomini, donne, anziani, ragazzi. Solo da una casa sono partiti colpi di doppietta, l’eccezione che conferma la regola? Pare proprio. I migranti facevano domande per sapere, e chiedevano spesso pane e acqua. La risposta superava le loro aspettative. Sembrava gara alla risposta, voglia di soddisfare sia le domande sia le richieste, anche quando queste non c’erano, ed ecco oltre alle informazioni, mai asciutte e fredde piuttosto condite di raccomandazioni, oltre alle informazioni anche il pane e l’acqua o altro ancora.
E’ un modo di mettersi nei panni degli altri.
Ho già avuto occasione di accennare all’empatia ( en pathos, sentire dentro), questa capacità che permette di entrare veramente in contatto con chi ha bisogno di qualcosa: di parlare, di raccontare la sua storia, di comunicare le sue emozioni; di compagnia, di aiuto, di soddisfare bisogni primari. Ci ritorno su questo discorso, prima di tutto perché mi piace approfondirlo, e c’è tanto da dire sulle capacità affettive e su quelle cognitive che promuovono l’empatia. Torno a discuterne perché ci sono popoli più empatici di altri. Da Napoli in giù senz’altro. E dunque desidero spiegare questa caratteristica che sembra appartenerci. Fa parte della nostra cultura, del nostro modo di essere e di esprimerci. Non mi chiedete perché alcuni popoli sono più empatici e altri meno. Non si sa, e le ipotesi possono essere tante e tutte da verificare. Ciò che importa secondo me è capire cosa c’è alla base del comportamento empatico.
Il protagonista di un film, un killer, raccomandava al suo giovane allievo di non guardare mai negli occhi il suo “obiettivo”, avrebbe potuto avere delle difficoltà a premere il grilletto. In realtà il killer generalizzava, perché la gran parte dei killer non ce l’ha questo problema, possono pure guardare fuori o dentro gli occhi, sparano comunque. Lui invece entrava in contatto. Bel film! Pensiamo alle guerre di un tempo, al corpo a corpo. Se guardavi gli occhi ed entravi in contatto non eri un guerriero. A me sta bene non essere guerriero, preferisco la collaborazione al conflitto, la prima costruisce, il secondo distrugge.
Perché si entra in contatto? La persona capace di entrare in contatto con l’altro ha una visione del mondo e degli uomini improntata alla parità: abbiamo gli stessi bisogni, le stesse esigenze. Costui è simile a me. Infatti si entra più facilmente in empatia quando ci accorgiamo che chi ci sta di fronte è come noi. Ma essere empatici veramente significa andare al di là delle apparenze e puntare a ciò che è alla base del nostro essere uguali. E’ meno facile.
Naturalmente non è sufficiente entrare in contatto. Chi entra in contatto si raffigura la situazione in cui si trova chi gli sta di fronte, e vi entra dentro a condividere. Ci vuole capacità di immaginazione. Sempre più difficile. Ecco l’esempio.
Un adulto e un bambino. L’adulto ha i suoi problemi, poniamo di lavoro, le cose non vanno bene, è molto preoccupato; di fronte ha un bambino, disperato perché gli si è rotto il giocattolo. Cosa accade all’adulto che si avvicina al bambino? Prima di tutto si è accorto di lui. Questo è il contatto. Quando poi viene a sapere il motivo della disperazione del bambino, opera un processo mentale straordinario: richiama la sua esperienza di bambino per convincersi che non deve appuntare l’attenzione al giocattolo ma alla disperazione del bambino. Quindi si raffigura la situazione e si immedesima. E ora dà importanza anche al giocattolo per mostrare al bambino che lo comprende.