LECCE – Se i salari degli italiani hanno subito un continuo ribasso, dagli anni ‘90 in poi, a causa di politiche scellerate di precarizzazione del lavoro, oggi l’inflazione (scatenata dalla speculazione sui costi energetici) ha dato il colpo di grazia, con un taglio netto che ha abbassato ancora di più il potere di acquisto delle famiglie. Gli stipendi più bassi d’Europa, quelli italiani, restano fermi, mentre prezzi dei beni e tasse aumentano, ma nessuno pare voglia adottare iniziative efficaci per porre rimedio a una situazione drammatica. Il professore Guglielmo Forges Davanzati dell’Università del Salento, in questa intervista che vi proponiamo, ci dà qualche spunto di riflessione.
Professore, le famiglie italiane sono vicine a un collasso economico, nonostante i media usino strategie di distrazione di massa. Tecnicamente nella situazione in cui si trova l’Italia, è possibile un aumento degli stipendi? È l’unica soluzione percorribile aumentare le entrate dei lavoratori o si possono bloccare alcuni prezzi? Si deve partire dagli stipendi nel pubblico? Dove si trovano i soldi?
“È da salutare con favore la decisione delle opposizioni – esclusa Italia Viva – di proporre l’introduzione del salario minimo in Italia. L’Italia è uno dei pochi Paesi europei a non avere una normativa sul salario minimo (esiste in 21 Paesi su 27), anche se ha un’elevata copertura della contrattazione collettiva (CCNL). Va riconosciuto, tuttavia, che sarebbe prioritariamente auspicabile una politica industriale finalizzata a irrobustire la nostra struttura produttiva, garantendo ai lavoratori incrementi salariali per il tramite di guadagni di produttività derivanti da maggiori dimensioni aziendali con tecnologie di avanguardia.
Innanzitutto, va detto che, nel nostro Paese, esiste una rilevante questione salariale, che fa riferimento a questa evidenza. L’Italia è l’unico Paese dell’Eurozona ad aver sperimentato una riduzione dei salari reali dagli inizi degli anni Novanta, nell’ordine del 2.9%. Il salario medio in Italia è inferiore a quello medio dell’Eurozona. Da uno studio della Fondazione Di Vittorio, condotto da Nicolò Giangrande, emerge non solo che il salario medio italiano è notevolmente inferiore a quello tedesco, ma anche che se si confronta il salario lordo annuale medio del 2021 con quello del 2019 risulta come il divario salariale tra Italia, da una parte, e Francia e Germania, dall’altra, si è sempre ampliato: la differenza con il salario francese è aumentata da -9,8 mila a -10,7 mila e con quello tedesco è cresciuta da -13,9 mila a -15,0 mila euro. A tenere bassi i salari italiani, nel confronto con i principali Paesi europei, è soprattutto l’altissima incidenza, nel nostro Paese, di lavori a bassa qualificazione e anche la quota rilevante di dipendenti a termine (il 16.6% contro l’11% della Germania). È inoltre estremante più diffuso in Italia il part-time involontario. Si osserva empiricamente il seguente fatto stilizzato: quando in Europa si riducono occupazione e salari, nel nostro Paese si riducono più velocemente e quando i salari crescono in Europa, crescono meno rapidamente in Italia. È tuttavia molto diffusa la cosiddetta contrattazione pirata, con salari molto bassi e di gran lunga inferiori a quelli derivanti dalla contrattazione collettiva. Si tratta di un dato difficile da stimare, dal momento che è possibile – come rileva ADAPT (2022) – che la mancata indicazione del codice del CCNL nell’archivio di riferimento UNIEMES dipenda non dall’assenza del contratto ma dal mancato deposito presso il CNEL. In ogni caso, si può stimare una percentuale nell’ordine del 15% di lavoratori italiani non coperti dalla contrattazione. Oppure si fa riferimento a 729.544 per i quali mancherebbe il contratto, al 2021, e di 772.286 lavoratori al 2020, i lavoratori senza l’attribuzione di un CCNL presente in UNIEMENS. Emerge, dunque, che fra i 700 e 800 mila lavoratori non sono stati tutelati da un contratto di lavoro nell’ultimo biennio. È in continuo aumento il lavoro povero, ovvero la condizione per la quale anche chi è regolarmente occupato riceve un salario al di sotto di quello che consente un’esistenza dignitosa, secondo gli standard prevalenti e secondo le soglie di povertà stabilite statisticamente, come rilevato nel rapporto INPS del 2022. Si calcola, a riguardo, l’esistenza di ben 5,2 milioni di lavoratori dipendenti (26,7%) che nella dichiarazione dei redditi del 2021 denunciano meno di 10mila euro annui. L’Italia è uno dei Paesi al mondo con maggiore diseguaglianza distributiva, dovuta principalmente alla caduta di lungo periodo della quota dei salari sul Pil (e a un sistema fiscale che pesa molto sul lavoro dipendente). Quest’ultima sembra essere dovuta, a sua volta, alla maggiore accelerazione che l’Italia ha dato alle misure di precarizzazione del lavoro, come risulta dal nostro bassissimo EPL (Employment Protection Legislation)”.
I recenti dati Istat sono stati una doccia gelata che ci ha messi di fronte al collasso demografico e alla precarietà che stritola le giovani famiglie: gli strumenti messi in campo dal governo, secondo Lei, sono efficaci per debellare questo cancro?
“Sono del tutto inadeguati e inefficaci. La crisi demografica è strettamente correlata alla diffusione di contratti precari e occorrerebbe intervenire a rendere normale il contratto a tempo indeterminato. Non si tratta di un’utopia e non vi è nulla di naturale e inevitabile nella precarizzazione del lavoro: il recente esempio della Spagna mostra che qualcosa a riguardo si può fare”.
In tanti call center appartenenti a multinazionali e in altre attività dove ci sono lavoratori poco specializzati i datori di lavoro usufruiscono di una contrattazione talmente tanto flessibile che permette di cambiare collaboratori in continuazione ogni due anni, o dopo pochi mesi, anche se lavorano bene, evitando così che maturino anzianità e tutta una serie di diritti. Come si può mettere mano a questo problema? Dobbiamo tornare alla situazione che c’era prima del nefasto “pacchetto Treu”?
“Uno dei più noti sociologi italiani della seconda metà del Novecento, Luciano Gallino, parlava di lotta di classe dall’alto, vinta – come ebbe a dichiarare Warren Buffet, uno dei massimi speculatori al mondo – dalla classe agiata della finanza internazionale. Sul piano dell’equità e dell’efficienza, occorrerebbe muoversi nella direzione di ri-regolamentare il mercato del lavoro (e aumentare i salari per accrescere la domanda aggregata e il tasso di crescita), ma sussistono troppi interessi (a partire da quelli del c.d. popolo di Davos – l’1% più ricco della popolazione mondiale) che frenano queste politiche”.
Cosa ne pensa della strategia europea di aumento dei tassi per contenere l’inflazione? Un approccio monetarista al problema può funzionare?
“Il problema della BCE consiste nella sua capacità di guidare la formazione delle aspettative, convincendo gli operatori che si sta muovendo nella direzione corretta. Non c’è unanimità di valutazioni positive a riguardo, neanche da parte dei tecnici. In linea generale, si può dire che le politiche monetarie restrittive hanno successo se pensate per ‘disciplinare’ i lavoratori, bloccando sul nascere le rivendicazioni salariali. In più, alcuni osservatori ritengono che l’attuale inflazione è da speculazione e da profitti e, in tal senso, la Fed e la BCE non possono nulla”.
Pensa ancora che gli impegni di spesa, presi per la difesa con la Nato, debbano essere rimandati, nonostante la minaccia della guerra alle porte dell’Europa?
“Sono i rapporti tecnici dei nostri generali e dirci che, così come è impostata, la politica della Difesa in Europa è irrazionale: serve un esercito europeo per evitare la duplicazione delle spese. In più, una indagine recente mostra che le nostre armi cedute all’Ucraina sono obsolete. Stiamo insomma spendendo molto e male”.