Sono state depositate le motivazioni da parte dei giudici della Corte d’Assise con le quali è stata disposta il 21 giugno scorso l’assoluzione di Gianluca Caputo, di Matino, accusato dell’omicidio di Giorgio Romano, con la formula per non aver commesso il fatto.
Il collegio di giudici ha anche disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero per accertare eventuali profili penali per il delitto rubricato nei riguardi di persone diverse da Caputo, in particolare la madre. Prima di ogni cosa bisogna ricostruire i fatti. Era la sera del 20 marzo del 2009. La lite tra i presunti protagonisti sarebbe scaturita per le vie del centro di Matino e subito volarono insulti. Poi l’anziano sarebbe stato colpito cadendo per terra e morendo alcuni giorni dopo il suo ricovero. Venne immediatamente incriminato il giovane Caputo finito sotto processo ma l’istruttoria dibattimentale avrebbe fatto emergere una verità differente. E i giudici, nelle loro motivazioni, rimarcano come la completa estraneità ai fatti del giovane trova sostegno dalle dichiarazioni fornite dall’assistente sociale la quale ha riferito che Caputo, nella riservatezza del loro rapporto, ha sempre riferito che era stata la madre a colpire Romano e non lui stesso. Caputo, rimarcano i giudici, pur essendo giovane di età e affetto da un disturbo di personalità, ha cercato di assumersi la responsabilità del fatto scansando la madre da possibili conseguenze penali nella fase iniziale della vicenda giudiziaria, finchè non ha compreso l’irragionevolezza di tale posizione. La madre, invece, in una deposizione puntigliosa e scaltra, sottolineano altresì i giudici, non ha fatto altro che accusare il figlio, senza un momento di pietà nei suoi confronti e senza alcun tentativo di giustificarne i gesti in ragione dello stato di salute e del vissuto familiare tristissimo e degradato. Vi è quindi, per i giudici, la presenza di una donna che è ragionevole ritenere non si sia fatta scrupoli ad accusare il figlio innocente non tanto per una volontà cattiva di far scontare al figlio quanto lei stessa avrebbe dovuto, quanto piuttosto per una sorta di furbizia spicciola ossia quella di ritenere che un soggetto all’apparenza seminfermo, ben poteva essere ritenuto incapace di intendere e di volere al momento del fatto o comunque usufruire di una sanzione assai mite per un’eventuale condanna.