di Julia Pastore
CASTRO (LECCE) – Piazza Dante a Castro pullulava di gente: Sergio Cammariere ha presentato il suo nuovo album, “La fine di tutti i guai” (il video del “title track” ha già fatto tantissime visualizzazioni: è un cortometraggio effetto cartoon, molto suggestivo, in cui Cammariere impersona un tassista che porta a spasso personaggi tra i più svariati, da Ray Charles, Kurt Cobain, fino a Frida Khalo).
L’artista, insieme al suo quartet che lo accompagna da più di 20 anni (Amedeo Ariano alla batteria,
Luca Bulgarelli al contrabbasso e Daniele Tittarelli, sax soprano), ha ripercorso il suo repertorio storico, a partire da “Via da questo mare” e da “Estate”, per poi creare un’aura magica attorno a “Tutto quello che un uomo”.
Sergio Cammariere ha ringraziato il vicesindaco di Castro, Alberto Antonio Capraro, per aver voluto e organizzato l’evento.
Una volta terminato il concerto, abbiamo raggiunto Sergio Cammariere presso l’hotel “La Roccia”, dove, deliziandosi il palato con dei caldi pasticciotti, ha concesso un’intervista al Corriere Salentino.
Con il trap che oggi conquista sempre di più le radio, che spazio resta alla musica più ricercata e meno omologata?
“Io penso che ci siano mode e fenomeni che passano. Noi, come tradizione italiana musicale, abbiamo l’opera, la canzone napoletana, i nostri grandi cantautori della scuola genovese, Gino Paoli, Luigi Tenco, ma anche Domenico Modugno. Per me la canzone è questa; le altre espressioni le ammiro, perché fanno parte del momento che stiamo vivendo: un momento di digitalizzazione. Anche le arti oggi sono un po’ omologate, infatti c’è stata una rivoluzione non solo nel mondo della musica, ma anche nel cinema e nell’arte in genere. Oggi ci troviamo di fronte ad un mondo che è senza controllo e il trap è il genere più in voga fra le giovani generazioni, in questo momento. È una moda, una corrente sicuramente stimolante, ma è anche un flusso che poi cambierà, perché tutto cambia, tutto si evolve. Io ammirazione verso questo tipo di musica: ho amato l’hip-hop quando è nato e infatti ho avuto il piacere di condividere il palco con Frankie HI-NRG, che aveva ideato dei testi molto originali. Sono sempre stato affascinato dal rotolamento delle parole su un tempo, su una musica, su un bit. Quindi trovo che questa evoluzione del rap sia stimolante, perché questo rotolamento delle parole nel tempo, così veloce, genera delle sonorità assurde, perché intanto bisogna essere metronomici e non è sempre agevole; poi, chiaramente, ci sono delle sonorità che possono essere discutibili. La scuola genovese e anche la mia sono diverse: noi ereditiamo la vecchia canzone acustica, quel linguaggio poetico a volte allusivo”.
Come si fa a mandare avanti il cantautorato italiano, con le case discografiche che invece spremono come un limone l’artista? Come contemperare questo sistema attuale?
“Questo è un periodo molto duro per i giovani, perché le case discografiche non credono più nei talenti e avendo poi il controllo dei media e quindi dei talent, c’è una narrativa che scorre, che è già prescritta e così i talenti veri e propri non escono fuori, ma in realtà l’Italia è piena di talenti. Le case discografiche si sono lasciati abbindolare dagli show televisivi, sono entrate in questo gioco, perché ormai i dischi non si vendono più, sono spariti; i nostalgici invece stanno recuperando il vinile, ma anche questa è una moda. Ormai contano le visualizzazioni: conta essere sui portali come Spotify o YouTube e conta fare promozione su di essi. Quindi per un giovane che deve costruire la propria storia, oggi è veramente difficile. Io ce l’ho fatta perché ho fatto una lunga gavetta: ho raggiunto il successo solo a quarant’anni, perché l’Italia allora, negli anni 80, era un Paese che amava riscoprire i vecchi standard del passato e quindi la musica di George Gershwin, di Carlos Jobim, di Bacharach o di
Michel Legrand (e Gershwin è proprio uno dei miei maestri). Io li portavo dentro di me anche nella mia musica allora, quando ho cominciato, e anche adesso sono il mio punto di riferimento. Quello che manca forse in questo momento ai giovani è avere dei punti di riferimento solidi”.
Quindi bisogna ritornare alle radici, ai grandi classici, e da lì ripartire?
“Certamente, e io in questo sono il Novecento: sono un riflesso di quello che il Novecento mi ha insegnato; i ragazzi del 2020 invece devono trovare i loro maestri. Noi, nell’epoca mia, abbiamo avuto la nascita del rock: c’è stata una rivoluzione negli anni 70, che ci portiamo dentro. I musicisti della mia età hanno vissuto quel periodo in cui uno solo di noi comprava il vinile e tutto intorno, come una cerimonia, si andava ad ascoltare a casa dell’amico il disco, perché l’aveva comprato solo lui. Nessuno si poteva permettere di comprare tutta la discografia: allora si comprava un disco, uno alla volta. Pensa com’è cambiato il mondo! Oggi invece tu sei libero, con un abbonamento, di poter scegliere tutta la musica del mondo e di condividerla. Questo è meraviglioso, però bisogna saper discernere e scoprire realmente dove sta l’essenza: io consiglio a tutti di ascoltare la musica classica. Ed è lì che si comincia: da
Ludwig van Beethoven, da Bach. Consiglio anche di ascoltare con umiltà e stando da soli, per poter percepire tutte le sfumature della musica. È fondamentale anche la sensibilità dell’orecchio: un orecchio preparato e sensibile riesce a cogliere meglio le sfumature della Settima di Beethoven o il pianismo di Debussy o di Ravel. In Italia c’è un artista che spiega molto bene questo: Ezio Bosso. Ezio Bosso, nelle sue sue esposizioni sulla musica classica, è stato straordinario. Noi dobbiamo ripartire dalla musica nelle scuole medie, dagli insegnanti che ci facevano ascoltare Mozart o ci facevano cantare il Nabucco di Verdi, piuttosto che l’Ave Maria di Schubert. Allora c’era più solidarietà, la musica era più presente nel ruolo educativo, come succede tuttora nel Nord-Europa. Noi la musica classica non la diffondiamo nella nostra televisione di Stat. La si trova su Radio Tre, ma te la devi andare a cercare. E allora come fa un giovane a sapere che esiste un certo tipo di musica che magari può essere affine ai suoi sentimenti? Perché uno che è romantico, per esempio, non può fare a meno di ascoltare un preludio di Chopin. Gli archetipi della musica sono questi maestri che hanno agito come se fossero sotto un ordine divino: erano come Dio, perché hanno scritto delle opere immortali. Dobbiamo ripartire da lì e poi potremmo tornare a parlare di trap”.
Tornerebbe a Sanremo?
“Volentieri: è l’evento mediatico più importante che abbiamo in Italia. È stancante, ma è divertente”.
C’è qualcosa che le piace fare quando torna qui, nel Salento?
“A me piace riassaporare la grande triade: io ritrovo qui il passato, il presente e il futuro. Ogni volta che scendo da Napoli in giù, sento il profumo della mia Calabria. Noi siamo la storia. Da qui riparte il futuro. I profumi della Puglia nel Salento mi riportano ad un ambiente familiare, a quei valori con i quali sono cresciuto”.