LECCE – “Se volete continuare a vendere dovete pagare 50 euro per ognuno di voi”. A Lecce, per un paio d’anni, il clan Briganti ha imposto il pizzo agli ambulanti in occasione di concerti, partite del Lecce e anche nei giorni riservati alle festività del santo patrono. Dopo il tintinnio delle manette e dei blitz in casa eseguiti agli inizi di aprile, la pm della Dda di Lecce Giovanna Cannarile ha fatto notificare l’avviso di chiusa inchiesta a carico di 23 soggetti (di cui 17 tra carcere e domiciliari) che, secondo le indagini della Squadra mobile, avrebbero fatto parte al sodalizio che ha tenuto in pugno i traffici illeciti nel capoluogo salentino: il presunto capo clan Pasquale Briganti, 53 anni, di Lecce, detenuto nel carcere di Tolmezzo; Fabio Briganti, 53 , di Lecce; Senad Ahmetovic, 29 anni, residente a Lecce; Aleandro Capone, 26 anni, di Lecce; Francesco Capone, 29 anni, di Lecce; Nicolò Capone, 24 anni, di Lecce; Daniele De Vergori, 22 anni, di Lecce; Carlo Gaetani, 38 anni, di Lecce; Maurizio Elia, 46 anni, di Lecce; Nicolò Greco, 23 anni, di Lecce; Giuseppe Guido, 32, di Lecce; Giovanni Laera, 63, di Lizzanello; Sergio Marti, 49 anni, di Giorgilorio (frazione di Surbo); Domenico Persano, 62 anni, di Lecce; Giorgio Piccinno, 33 anni, di Maglie; Nicola Pinto, 35 anni, di Lecce; Enzo Quaranta, 37 anni, di Lecce; Silvia Renna, 29 anni, di Lecce; Giampiero Schipa, 58 anni, di Lecce; Daniele Sergi, 29, di Lecce; Gianluca Stella, 33 anni, di Lecce; Carlo Zecca, 34, di Lecce; Simone Zimari, 32, di Lecce.
Le indagini, culminate nel blitz ribattezzato Game Over, sono partite grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Tommaso Montedoro. Gli investigatori hanno avviato intercettazioni e pedinamenti accertando come il clan nel tempo abbia avuto la forza di rigenerarsi come un’Araba fenice nonostante gli arresti e i blitz degli anni scorsi. E infatti continuava a gestire il clan dal carcere in cui è detenuto dal 2019 Pasquale Briganti, detto ‘Maurizio’, attraverso familiari e sodali, riuscendo ad affiliare nuove persone attraverso i rituali delle organizzazioni criminali di stampo mafioso e innalzando il rango interno quelli già appartenenti alla Sacra corona unita.
Il cavallo di battaglia del sodalizio sarebbe stato costituito dalle estorsioni. Taglieggiamenti a tappeto a cui gli ambulanti non si sarebbero ribellati. In occasione del concerto del rapper Salmo il 9 agosto del 2019, in quattro avrebbero fatto capire senza troppi giri di parole (mostrando una pistola) a un ambulante di origini napoletane che per lavorare avrebbe dovuto corrispondere una somma di denaro. Lui come gli altri colleghi. “Adesso c’è un altro concerto, domenica c’è l’altro” intercettano gli investigatori. Il clan aveva poi fiutato il business anche per le partite del campionato di serie A: “Adesso che arriva la serie A…adesso che arrivano con le sciarpe…quando c’è la Juve, il Napoli, l’Inter”.
A fine agosto del 2019, poi, gli esponenti del sodalizio si sono presentati anche ai commercianti in occasione della Festa di Sant’Oronzo. Riscuotevano tra i 20 e i 50 a bancarella raccogliendo somme di poco conto: tra i 1.000 e i 1.500 euro al giorno. “Per quattro giorni sono 100 euro” spifferava un indagato al telefono senza sapere di essere intercettato. I dialoghi confermavano che anche i giostrai che operavano nella zona dello stadio comunale di Lecce destinavano ai referenti del clan un cospicuo numero di biglietti poi ripartiti tra le famiglie dei sodali. Una parte della città viveva, di fatto, sotto l’egida del clan.
Nella zona della 167 b non si poteva muovere foglia se non era l’organizzazione mafiosa a dare il placet. Cittadini assoggettati, dunque. Come la madre di un minore che si è recata in casa di un membro del sodalizio per chiedere “perdono” per un furto compiuto dal figlio in zona. Una donna disperata che ha dovuto tutelare i figli consapevole di vivere in un quartiere in cui bisognava rispettare le regole del clan. La donna si era presentata al cospetto dell’affiliato per evitare che venissero provvedimenti troppo gravi nel caso in cui il figlio avesse compiuto altri sgarbi. Chiedeva soltanto di essere lasciata in pace, di poter crescere al meglio i figli in modo da evitare che fossero arrestati, di continuare a vivere in quella zona dove le era stata assegnata una casa anche perché con il suo lavoro non aveva possibilità di trasferirsi altrove. La risposta, però, sarebbe stata lapidaria: “Qui funziona in un certo modo, non vogliamo cani sciolti”.
Il clan si sarebbe occupato direttamente dell’acquisto della droga, prevalentemente in Albania, e della consegna finale ai vari pusher. Avrebbe inoltre avuto una consistente disponibilità di armi, anche da guerra, di provenienza balcanica. Nel corso delle attività sono stati sequestrati fucili mitragliatori di assalto sovietici, tra cui AK47 Kalashnikov e modello M.70 Zavasta, oltre a numerose pistole calibro 45, calibro 38 special e relativo munizionamento. Per l’acquisto di queste armi il gruppo criminale avrebbe avuto come referente una persona italiana, di origini montenegrine, collante tra il clan e i trafficanti di armi residenti nel campo nomadi Panareo a Lecce.
Gli indagati sono difesi dagli avvocati Benedetto Scippa; Ladislao Massari; Angelo Vetrugno; Antonio Savoia; Salvatore Rollo; Marco Caiaffa; Raffaele Benfatto; Giuseppe De Luca; Ilario Manco; Mariangela Calò; Giancarlo Dei Lazzaretti; Giuseppe Presicce; Allberto Corvaglia; Dimitry Conte; Pantaleo Cannoletta; Lucia Longo e David Alemanno.