GALATINA (Lecce) – Il 22 luglio è la data spartiacque per l’avvio della collaborazione di Dino Coluccia con gli inquirenti. “Lo voglio fare perché è mia intenzione cambiare stile di vita” riferisce nel carcere di Lecce ai carabinieri e alla pm Carmen Ruggiero. E nel secondo incontro del 7 settembre inizia a sciogliere la lingua ricostruendo la genesi del clan di Noha e la sua suddivisione in ruoli e direttive. Dino Coluccia parte dal personale battesimo nell’organizzazione che risale al 1995 quando – racconta – si è occupato della latitanza di Antonio Coluccia occupandosi di attentati nei confronti di un gruppo operante su Galatina contrapposto al clan Coluccia. Le direttive riguardavano anche la gestione del traffico di sostanze stupefacenti in particolare di cocaina.
Dopo l’arresto di Antonio, Dino ha iniziato ad occuparsi della gestione delle piazze di spaccio insieme a renato Coluccia in particolare nei comuni di Cutrofiano, Galatina, Aradeo, Seclì e Collemeto. Un clan a base familiare “Michele aveva la carica più elevata mentre Antonio, quando è tornato in libertà, ha ripreso le redini del traffico degli stupefacenti” come spiega agli inquirenti lo stesso Dino che si è occupato di custodire sino a 100mila euro e di consegnare somme di denaro alla moglie di Antonio (Coluccia dopo il suo arresto ndr) e di Michele detenuto. E non sarebbero mancate le tensioni con gruppi avversi e faide interne. Come nel caso di un’attività di spaccio gestita dai “leccesi” nel territorio di Galatina e di conflitti interni per rivalità che covavano da tempo.
Dino ha infatti raccontato di una scissione interna che avrebbe dovuto portare a praticare prezzi più bassi nella cessione di stupefacente “per consentire a Noha di tornare quella di un tempo e di recuperare la centralità nel settore del rifornimento di stupefacenti in modo tale che tutti i gruppi della provincia si rivolgessero a loro”. Accuse auto ed etero-accusatorie quelle di Dino Coluccia che ha tirato in ballo alcuni degli odierni imputati. Nel verbale compare il nome di Marco Calò, indicato come un usuraio di professione dagli inquirenti che, secondo le dichiarazioni di Dino Coluccia, prestava il denaro secondo le direttive imposte da Michele e Antonio Coluccia. Luigi Gesù, invece, si occupava delle estorsioni per conto del clan e in alcune occasioni si era anche preoccupato di verificare la qualità della cocaina che il clan doveva comprare sottoponendo delle piccole quantità ad alcune persone che erano abituali assuntori.
Alì Farhangi, invece, sarebbe stato il factotum di Michele Coluccia e per suo conto si occupava di tutte le questioni del clan tanto che la famiglia Coluccia, narra Dino, aveva investito circa 100mila euro nell’attività di Farhangi di vendita di bibite. Renato Puce, invece, sarebbe il referente su Corigliano occupandosi della piazza di spaccio mentre Cosimo Tarantini gestiva Neviano.