di Giovanni Battista Cervo, esperto di intelligence e terrorismo
SALENTO – “Il male che l’uomo fa vive oltre di lui, il bene sovente rimane sepolto con le sue ossa”, queste parole che William Shakespeare fa pronunciare nella sua tragedia al console Marco Antonio nel discorso pronunciato a seguito dell’assassinio di Giulio Cesare avvenuto, come è noto, nel senato romano il 15 marzo del 44 a.C., esattamente il giorno delle idi di quel mese, sono parole il cui significato è vero e sempre attuale.
Un tragico appuntamento col destino quello di Cesare ed ora, con un salto temporale di 22 secoli, ricordiamo un’altra tragedia dal sapore politico, avvenuta il giorno successivo “le idi di marzo” del 1978, in cui un altro uomo politico incontra il suo tragico destino.
Un uomo è immobile in piedi, con in mano un’arma fumante, il suo sguardo fisso contempla la scena davanti a sé, sembra stordito, frastornato, impietrito, i suoi occhi registrano immagini che rimarranno indelebili nella sua mente, sembra un film, ma è tutto reale: forse proprio allora iniziarono nella sua mente a insinuarsi dei dubbi e a generarsi delle domande; ovvero se una ideologia politica valesse tutto quel male,
le risposte arriveranno solo molti anni dopo.
Quella mattina a Roma, giovedì 16 del 1978, ore 08:58, due auto viaggiano su via Trionfale: una “Fiat 130 ” di colore blu ministeriale, seguita da una Alfetta colore bianco, procedono incolonnate a velocità costante, l’Alfetta è un’auto civetta della polizia con a bordo tre agenti, parte della scorta del presidente della Democrazia Cristiana On. Aldo Moro, il quale a sua volta viaggia sulla Fiat 130 con due carabinieri di scorta.
L’Alfetta, la macchina di coda, è guidata dall’agente Giulio Rivera, 24 anni, alla sua destra il vicebrigadiere Francesco Zizzi, 30 anni, al suo primo giorno in quell’incarico, dietro ai due siede il terzo agente, Raffaele Iozzino, 25 anni; la Fiat 130 blu ministeriale, è guidata dall’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci, 44 anni, quel giorno in sostituzione di un collega e, al suo fianco, siede il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, di anni 52, caposcorta; dietro, tra borse e giornali, l’On.le Aldo Moro.
Le due auto procedono incolonnate quando, da via Trionfale, imboccano via Mario Fani, una strada in lieve pendenza; nessuno degli uomini della scorta fa caso ad una donna con un mazzo di fiori tra le mani che attraversa rapidamente la strada per poi salire su di una “Vespa”, il suo compito è terminato.
Quella donna è Rita Algranati, alias “compagna Marzia”, quel mazzo di fiori è il segnale di allerta che “l’Operazione Fritz”, così battezzata per la tipica frezza bianca sulla fronte dell’On.le Moro, è cominciata.
L’avviso è partito, è solo questione di 55’’ secondi: Mario Moretti, uno dei “dirigenti” delle Brigate Rosse e capo operativo in questa azione, si fa strada velocemente uscendo dal parcheggio di destra e alla guida di una Fiat 128 bianca, targata Corpo Diplomatico per non creare sospetti, si posiziona alla testa delle due auto che sono costrette a rallentare; la manovra serve per controllare la velocità di marcia del corteo presidenziale, in vista dell’avvicinamento all’angolo con via Stresa.
La vista dell’auto di Moretti in avvicinamento richiama l’attenzione del gruppo, annullando di colpo tutta l’ansia accumulata nella snervante attesa: l’azione è prossima e i quattro brigatisti del commando di fuoco, vestiti da piloti dell’Alitalia e occultati in prossimità dell’incrocio dietro le siepi del bar Olivetti, estraggono dai borsoni le loro armi automatiche e, imbracciandole, tirano e rilasciano con un gesto energico e deciso le manigliette d’armamento, i colpi in canna sono camerati, tutto è pronto, una manciata di secondi e balzeranno come belve sulle prede.
L’azione è articolata come un operazione militare, le auto bersaglio verranno bloccate in una “kiling zone”, (zona di annientamento), così da impedire l’attuazione di una qualsiasi manovra difensiva, di fuga o guida offensiva e, a tale scopo, un’altra 128 bianca, con a bordo Alessio Casimiri e Alvaro Lojacono, due irregolari della colonna romana delle (Br), seguiranno le auto, sia per bloccare il traffico alle loro spalle, sia per limitare e chiudere lo spazio ad un eventuale tentativo di fuga.
Questa tattica militare è conosciuta come tecnica dei “cancelletti” e consiste nel bloccare nella zona di soppressione l’obiettivo; nel nostro caso la scena del crimine è delimitata da un cancelletto superiore inizio strada e uno inferiore alla fine della strada.
Nel frattempo, allo Stop alla fine della strada, in mezzo all’incrocio di via Stresa, entra in azione Barbara Balzerani, la quale in possesso di una paletta della Polizia di Stato e di una mitraglietta Skorpion, blocca il traffico in avvicinamento all’uscita con via Fani, la zona doveva essere difatti priva d’ingerenze e libera per la fuga; sempre parcheggiata all’angolo di via Stresa, in una Fiat 132 blu, attende Bruno Seghetti, il cui compito è quello di entrare in retromarcia in via Fani e prelevare l’ostaggio, mentre
in via Fani, in prossimità dello Stop, sul lato destro, prima della svolta con via Stresa è posteggiata un’auto “Austin Morris”, il cui coinvolgimento non è stato mai chiarito, ossia se fosse o meno lì per caso: la macchina risulterà infatti intestata ad una società di copertura dei Servizi, ma il dato ulteriormente inquietante è che, unitamente alla 128 bianca in testa alla colonna e guidata da Moretti, quella macchina contribuirà alla costituzione del secondo “cancelletto”, detto inferiore, chiudendo e bloccando la manovra di fuga tentata disperatamente dall’appuntato Ricci alla guida della 130 blu.
“La quiete prima della tempesta”, per la scorta è una tranquilla giornata di sole battuta da un leggero e freddo venticello, l’Onorevole sfoglia i giornali della mattina, tutto sembra normale ; alle 09:03, la Fiat 128 CD guidata da Mario Moretti frena bruscamente all’altezza dello Stop tra via Fani e via Stresa: dallo specchietto retrovisore vede l’appuntato Ricci che, alla guida della Fiat 130, fa cenno col braccio di proseguire, quello fu l’ultimo gesto dell’uomo prima che l’ideologia impattasse violenta sulla democrazia.
L’inferno aprì le porte, quattro brigatisti si materializzarono, uscendo da dietro le siepi del Bar Olivetti, aprirono il fuoco con le armi automatiche: sulla Fiat 130 blu ministeriale spararono, in ordine, Valerio Morucci con un mitra Fnab43, cal.9 e Raffaele Fiore con un mitra M12 cal.9 sull’Alfetta della scorta, si concentrarono Prospero Gallinari con un mitra/pistola Tz 45, cal.9 Franco Bonisoli con un mitra Fnab43, cal. 9; l’acre odore della cordite accompagna il fragore delle raffiche, le urla e i vetri infranti.
I corpi degli agenti sussultano, l’auto della scorta urta la 130 di Moro che, a sua volta, finisce sulla Fiat 128 di Moretti, l’agente Ricci ferito, che guida la 130, cerca invano di forzare il blocco, ma l’auto è incastrata tra l’Alfetta, la 128 e l’Austin Morris posteggiata sul lato destro che rende impossibile tale manovra, agendo da cancelletto inferiore; le raffiche si susseguono, poi si bloccano per via di alcuni inceppamenti, ma vengono sopperite dai colpi singoli delle pistole, per poi riprendere il ritmato fluire dei colpi per altri brevi secondi, subito dopo, il silenzio totale, anzi, il vuoto.
Mario Moretti, sceso dalla 128 bianca con un mitra MAB 38 cal. 9, insieme a Raffaele Fiore, aprono lo sportello dell’auto di Moro e con le parole : “Presidente, venga con noi.”, lo trasportano fino a sedersi sul sedile posteriore della 132 blu guidata da Bruno Seghetti che nel frattempo è giunta in retromarcia da via Stresa.
Ritorniamo a quell’uomo frastornato, impietrito che, all’inizio di questa storia, in piedi osservava lo scempio appena compiuto: è Valerio Morucci uno del commando di fuoco che, a operazione conclusa, aveva il compito di recuperare le borse di Aldo Moro, cinque in tutto, ma forse per lo shock, lo smarrimento o la fretta ne prenderà solo due.
Dalle perizie balistiche e dalle autopsie i colpi sparati risulteranno in totale 93: di cui 91 dai Brigatisti e 2 dall’agente Raffaele Iozzino; mentre 44 quelli che attinsero i 5 agenti.
I colpi furono così ripartiti : l’appuntato Ricci raggiunto da 7 colpi; il Maresciallo Leonardi da 9, il presunto colpo di grazia alla nuca era compatibile con l’azione di voltarsi indietro verso l’On.le Moro, nell’estremo tentativo di proteggerlo; l’agente Rivera, autista dell’Alfetta, 8 colpi; il vicebrigadiere Zizzi, estratto ancora in vita, 3 colpi, morirà in ospedale; l’agente Iozzino, l’unico che, se pur ferito, riesce ad uscire dall’Alfetta e sparare due colpi di pistola, verrà raggiunto da ben 17 colpi.
All’esito delle varie perizie balistiche si è appurato che : i bossoli ritrovati e repertati saranno 93, mentre i proiettili esplosi potrebbero essere stati di più, questa discrasia è alla base di varie teorie tra le quali la supposta presenza di un quinto uomo il cui nome sarebbe stato taciuto dalle Br; i proiettili sono stati sparati in totale da 6 armi differenti: 4 mitra, di cui due non sequestrati; 1 pistola semiautomatica Smith e Wesson 39-2, sequestrata; 1 pistola semiautomatica Beretta mod. 51 o 52 cal 7,65 (non sequestrata).
In questa storia, scritta per non dimenticare, non ci sono né vincitori né vinti: nella narrazione mi sono attenuto esclusivamente ai fatti accertati, ritenendo personalmente che le Brigate Rosse abbiano fatto, nella strage di via Fani, tutto da sole, senza cavalcare alcun filone cospirativo inserito in complotti e/o dietrologie, poiché la presenza di ulteriori soggetti (Servizi Segreti), o la connivenza di Stati Stranieri non è mai stata provata, perciò non la prendiamo in considerazione se non vogliamo scivolare nella massima di Nietzsche secondo la quale “ Non esistono fatti puri, ma solo interpretazioni”.