Mafia, droga ed estorsioni: chieste 15 condanne ed un’assoluzione “pesante”

F.Oli.

LECCE – Quindici condanne ed un’assoluzione “pesante”. Questo l’esito della requisitoria della pm della Dda Giovanna Cannarile nell’ambito del processo in abbreviato avviato dopo l’inchiesta ribattezzata “Game Over”. Dieci anni e 8 mesi sono stati sollecitati per Fabio Briganti, 52enne; 14 per Aleandro Capone, 27enne; 18 anni per Francesco Capone, detto “Checco o Facciune”, 29enne; 4 anni e 9 mesi per Nicolò Capone, 26 anni, di Galatina; 12 anni e 4 mesi per Daniele De Vergori, 24enne; 3 anni e 4 mesi per Maurizio Elia, 48 anni, di Lecce; 19 anni e 4 mesi per Carlo Gaetani, conosciuto come “Carletto”, 38enne, di Lecce; 2 anni e 6 mesi per Nicolò Greco, 26, di Lecce; 13 anni e 6 mesi per Giuseppe Guido, 34enne, di Lecce; 12 anni e 8 mesi per Nicola Pinto, detto “Nico”, 36enne; 14 anni per Gianluca Stella, detto “Luca o Ciotta”, 33enne; 20 anni per Carlo Zecca, 34enne; Nicolò Greco, 23enne; 6 anni e 10 mesi per Domenico Persano, detto “Mimmo”, 63enne; 8 anni ad Enzo Quaranta, 37enne;  Nicolò Capone, detto “Nicolò piccolo”, 4 anni e 10 mesi per Simone Zimari, 32enne, tutti di Lecce. Per Pasquale Briganti, detto Maurizio 54enne (fresco di scarcerazione), assistito dagli avvocati Antonio Savoia e Ladislao Massari, il pm ha chiesto l’assoluzione per non aver commesso il fatto. Il processo, nell’aula bunker del carcere di Lecce davanti al gup Marcello Rizzo, proseguirà il 2 ottobre

Le indagini sono partite grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Tommaso Montedoro. Gli investigatori hanno avviato intercettazioni e pedinamenti accertando come il clan nel tempo abbia avuto la forza di rigenerarsi come un’Araba fenice nonostante gli arresti e i blitz degli anni scorsi. E infatti, secondo le indagini, continuava a gestire il clan dal carcere in cui era detenuto Pasquale Briganti, detto ‘Maurizio’, attraverso familiari e sodali, riuscendo ad affiliare nuove persone attraverso i rituali delle organizzazioni criminali di stampo mafioso e innalzando il rango interno quelli già appartenenti alla Sacra corona unita.

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Il cavallo di battaglia del sodalizio sarebbe stato costituito dalle estorsioni. Taglieggiamenti a tappeto a cui gli ambulanti non si sarebbero ribellati. In occasione del concerto del rapper Salmo il 9 agosto del 2019, in quattro avrebbero fatto capire senza troppi giri di parole (mostrando una pistola) a un ambulante di origini napoletane che per lavorare avrebbe dovuto corrispondere una somma di denaro. Lui come gli altri colleghi.  “Adesso c’è un altro concerto, domenica c’è l’altro” intercettano gli investigatori. Il clan aveva poi fiutato il business anche per le partite del campionato di serie A: “Adesso che arriva la serie A…adesso che arrivano con le sciarpe…quando c’è la Juve, il Napoli, l’Inter”.

A fine agosto del 2019, poi, gli esponenti del sodalizio si sono presentati anche ai commercianti in occasione della Festa di Sant’Oronzo. Riscuotevano tra i 20 e i 50 a bancarella raccogliendo somme di poco conto: tra i mille e i 1500 euro al giorno. “Per quattro giorni sono 100 euro” spifferava un indagato al telefono senza sapere di essere intercettato. I dialoghi confermavano che anche i giostrai che operavano nella zona dello stadio comunale di Lecce destinavano ai referenti del clan un cospicuo numero di biglietti poi ripartiti tra le famiglie dei sodali. Una parte della città viveva, di fatto, sotto l’egida del clan.

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Nella zona della 167 b non si poteva muovere foglia se non era l’organizzazione mafiosa a dare il placet. Cittadini assoggettati, dunque. Come la madre di un minore che si è recata in casa di un membro del sodalizio per chiedere “perdono” per un furto compiuto dal figlio in zona. Una donna disperata che ha dovuto tutelare i figli consapevole di vivere in un quartiere in cui bisognava rispettare le regole del clan. La donna si era presentata al cospetto dell’affiliato per evitare che venissero provvedimenti troppo gravi nel caso in cui il figlio avesse compiuto altri sgarbi. Chiedeva soltanto di essere lasciata in pace, di poter crescere al meglio i figli in modo da evitare che fossero arrestati, di continuare a vivere in quella zona dove le era stata assegnata una casa anche perché con il suo lavoro non aveva possibilità di trasferirsi altrove. La risposta, però, sarebbe stata lapidaria: “Qui funziona in un certo modo, non vogliamo cani sciolti”.

Il clan si sarebbe occupato direttamente dell’acquisto della droga, prevalentemente in Albania, e della consegna finale ai vari pusher. Avrebbe inoltre avuto una consistente disponibilità di armi, anche da guerra, di provenienza balcanica. Nel corso delle attività sono stati sequestrati fucili mitragliatori di assalto sovietici, tra cui AK47 Kalashnikov e modello M.70 Zavasta, oltre a numerose pistole calibro 45, calibro 38 special e relativo munizionamento. Per l’acquisto di queste armi il gruppo criminale avrebbe avuto come referente una persona italiana, di origini montenegrine, collante tra il clan e i trafficanti di armi residenti nel campo nomadi Panareo a Lecce. Il processo è stato aggiornato al prossimo 16 settembre davanti alla giudice per l’udienza preliminare Francesca Mariano.

Il collegio difensivo è completato dagli avvocati Benedetto Scippa; Angelo Vetrugno; Salvatore Rollo; Marco Caiaffa; Stefano Prontera; Raffaele Benfatto; Giuseppe De Luca; Luigi Covella; Ilario Manco; Mariangela Calò; Giancarlo Dei Lazzaretti; Giuseppe Presicce;Dimitry Conte; Francesco Vergine; Amilcare Tana; Pantaleo Cannoletta; Lucia Longo e David Alemanno.

 

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