L’ho scritto la settimana scorsa su queste pagine: non c’è più tempo per pensare. Per migliorare la propria economia l’Italia deve uscire dall’euro. Ormai tutti lo pensano, anche se non tutti lo dicono.
Ritornando alla lira si avrebbe una moneta “giustamente” e opportunamente svalutata rispetto all’economia nazionale, la produzione ripartirebbe e si esporterebbe molto di più. È vero, il costo delle materie prime sarebbe più alto, ma questo “pseudo problema” potrebbe essere facilmente risolto dai nostri politici liberalizzando il mercato interno e consentendo alle imprese una sana concorrenza che abbasserebbe i prezzi favorendo i consumi e l’export. Lo Stato, dal canto suo, potrebbe intervenire sul tasso di cambio controllando, in tal modo, la svalutazione/rivalutazione della moneta a seconda delle necessità del momento. Ne beneficerebbero i salariati con un potere di acquisto maggiore e i consumi aumenterebbero. Particolare non trascurabile: potremmo emettere moneta autonomamente ed evitare anche i relativi costi di emissione dell’euro. Riepilogando: svalutazione della moneta e inflazione meglio gestibile con corrette azioni economiche e aumento della produzione industriale e delle esportazioni con conseguente crescita dell’occupazione, maggior potere di acquisto della moneta e, di conseguenza, maggiori consumi.
Punctum dolens! Tutto questo causerebbe problemi a chi ha sempre beneficiato dell’Euro, come la Germania, che avendo preventivamente aiutato le imprese, si è avvantaggiata di tale posizione, oramai acquisita, tanto da divenire leader indiscussa dell’export in Europa.
D’altro canto, l’abbandono della moneta unica farebbe esplodere i tassi d’interesse e lo Stato si troverebbe in serie difficoltà a finanziarsi e a ripagare i tassi debitori, se non aumentando la tassazione dei consumi (ad esempio attraverso l’iva), con conseguente aumento dei prezzi e rischio di svalutazione incontrollabile. Tutto ciò causerebbe un aumento del debito pubblico. Riepilogando: più tasse sui consumi, tassi d’interesse più alti e aumento del debito pubblico. Anche in questo caso lo Stato potrebbe intervenire sui tassi di cambio, sull’emissione della moneta e sulla pressione fiscale.
Come si può intuire, tutto dipenderebbe dalla maggiore o minore capacità dei nostri governanti di affrontare i problemi con serie e ponderate manovre di politica economica. Ma chi si assume questo rischio? Dando uno sguardo agli ultimi decenni della politica, risulta davvero molto difficile una valutazione ottimistica dell’uscita dall’euro, tanto da sentirsi in completa sintonia con quella parte di economisti che sostiene che non debbano essere i singoli Stati a dover uscire dall’euro, quanto piuttosto l’Eurozona (tutta) a rinunciare alla moneta unica.
Perché Draghi è stato chiaro: per uscire dall’Euro l’Italia dovrebbe pagare 358 miliardi di euro alla Germania. Il governatore della BCE in una lettera inviata a due esponenti italiani del Parlamento europeo (sostenitori dell’Italexit) ha affermato che l’Italia potrebbe lasciare l’area euro, pagando il suo conto “Target2” di 357 miliardi di euro, il cui principale beneficiario sarebbe la Germania, la quale vanta circa 754 miliardi di euro di “attività” nel sistema Target2 che non è altro che un sistema interbancario di pagamenti per l’elaborazione in tempo reale dei bonifici transfrontalieri in tutta l’Unione europea. In genere questi pagamenti non vengono mai regolati materialmente e negli ultimi anni di crisi finanziaria i Paesi economicamente più deboli dell’unione monetaria hanno accumulato debiti enormi verso il sistema e la Germania è il più grande creditore vantando 754 miliardi di crediti netti.
Allora, cosa si potrebbe fare? La soluzione è semplice: quello che la Germania ha già fatto in passato: non pagare i propri debiti!
Si perché la Germania, moralista con gli affari degli altri e strafottente con i suoi, ha rischiato il “fallimento” per ben tre volte nel secolo scorso ed i Paesi con i quali oggi continua a fare la moralista le hanno condonato fior di milioni di debiti: quelli delle due guerre mondiali. Fra questi Paesi, la Grecia e l’Italia, con i quali oggi la Germania si accanisce.
Infatti, dopo la Prima Guerra Mondiale, J. M. Keynes sostenne che il conto chiesto dai Paesi vincitori ai perdenti non avrebbe consentito alla Germania di riprendersi dalla sconfitta. L’ammontare del debito di guerra equivaleva, in effetti, al 100% del Pil tedesco di allora. Nel 1923 si giunse al grande default tedesco. Hitler rifiutò di onorare i debiti e il denaro risparmiato fu investito per la ripresa economica ed il riarmo che poi portò, purtroppo, alla Seconda Guerra Mondiale in seguito alla quale la Germania s’indebitò ancora di più nei confronti dei Paesi vincitori. L’ammontare complessivo dei debiti aveva raggiunto, allora, i 23 miliardi di dollari, cifra che la Germania sconfitta non avrebbe mai potuto pagare uscendo perdente da due guerre che essa stessa aveva provocato causando ingenti danni ai Paesi aggrediti.
Mentre i sovietici pretesero e ottennero il pagamento della somma loro spettante, fino all’ultimo centesimo, anche facendo lavorare senza paga migliaia di civili e prigionieri, il 24 agosto 1953, gli altri 21 Paesi coinvolti, dal Belgio al Canada, dalla Danimarca all’Irlanda, dall’Iran allo Sri Lanka, dalla Grecia all’Italia e, poi, il Liechtenstein, il Lussemburgo, la Norvegia, il Pakistan, la Gran Bretagna, l’Irlanda del Nord, la Repubblica del Sud Africa, la Francia e, ancora, Spagna, Stati Uniti d’America, Svezia, Svizzera e, perfino, Jugoslavia, con un trattato firmato a Londra, le consentirono di dimezzare il debito che passò da 23 a 11,5 miliardi di dollari, da pagarsi a rate in 30 anni. In questo modo, la Germania evitò il fallimento. L’altra metà avrebbe dovuto essere rimborsata dopo l’eventuale riunificazione delle due Germanie.
E quando ciò avvenne nel 1990 con la caduta del muro berlinese, l’allora cancelliere Kohl si oppose strenuamente alla rinegoziazione dell’accordo, che avrebbe, senza scampo, procurato un terzo fallimento alla Germania. Italia e Grecia, ancora una volta, le abbonarono i loro crediti. Nell’ottobre 2010 la Germania ha finito di rimborsare i debiti imposti dal trattato del 1953 per un importo di quasi 70 milioni di euro.
Senza quell’accordo, la Germania avrebbe dovuto rimborsare debiti per almeno altri dieci lustri e ciò non le avrebbe consentito di ottenere la forte crescita economica del secondo dopoguerra, né di entrare in organismi quali la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e la WTO ossia l’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Lo hanno dimenticato i politici di tutto il mondo? Ma, soprattutto, non lo ricorda la Merkel! Ha ragione Bergson: se devo ricordarmi di qualcosa, devo ricordarmi prima di quello di cui mi devo ricordare, per potermelo ricordare e questo paradosso può essere dissolto solo se la cosa che si cerca di ricordare è in qualche modo già presente in chi la deve ricordare.
Allora l’Italia non ha speranze, i tedeschi hanno già dimenticato da tempo: la memoria non è corporea.
Flavio Carlino