F.Oli.
NARDO’ (Lecce) – Dovranno difendersi dall’accusa di riduzione in schiavitù e non più da quella più blanda di caporalato. Svolta nel processo a carico dei presunti responsabili della morte del bracciante sudanese Mohamed Abdullah. Parliamo di Giuseppe Mariano, 75 anni, detto “Pippi”, di Porto Cesareo, titolare di fatto dell’azienda in cui lavorava la vittima e di Mohamed Elsalih. Quest’ultimo, un 38enne di origini sudanesi, avrebbe reclutato manovalanza a basso prezzo da sfruttare poi nei campi. Non semplici caporali ma qualcosa di più. Gente, stando a quanto ipotizzato, che avrebbe ridotto in schiavitù una pletora di disperati. Il pubblico ministero Paola Guglielmi, su richiesta del giudice monocratico della prima sezione penale Francesca Mariano, ha infatti riqualificato il reato di caporalato in riduzione in schiavitù.
Per competenza il processo (la cui istruttoria non è ancora iniziata) si trasferisce davanti ai giudici della Corte d’Assise. Non è la prima volta che il Tribunale di Lecce contesta l’accusa di riduzione in schiavitù per vicende analoghe come accaduto per l’inchiesta Sabr. In quel caso, in Appello, l’accusa cadde perché il reato non era previsto dalla legge come reato nel periodo in cui si sarebbero consumati i fatti. Già in primo grado, altri imputati, tra cui lo stesso Mariano, erano stati assolti nel merito.
Ma torniamo al processo sulla morte del bracciante giunto in Italia con tutta la sua famiglia per fuggire alla fame e alla miseria del suo paese. Nella scorsa udienza (la prima) il cambio del capo d’imputazione era stato sollecitato dallo stesso giudice. Una richiesta motivata dal fatto che la legislazione sul caporalato, nel capo d’imputazione oggetto di giudizio, ha subìto nel frattempo numerosi interventi legislativi. Inoltre sempre il giudice rilevava che la condotta descritta nell’imputazione poteva ritenersi inquadrabile in diverse fattispecie di reato rispetto a quelle già rilevate.
Il pubblico ministero ha così riformulato un nuovo capo d’imputazione mantenendo l’accusa di omicidio colposo e inserendo il reato di riduzione in schiavitù. In un passaggio il pm scrive: “Riducevano e mantenevano numerosi cittadini extracomunitari di nazionalità prevalentemente sudanese, in stato di soggezione continuativa, condizione analoga alla schiavitù”. Su queste basi accusatorie rinnovate si tornerà in aula sperando che l’istruttoria possa avere definitivamente il via. Di certo la posizione dei due imputati si è aggravata. E non poco.
Il processo dovrà fare luce sulle indagini condotte dai carabinieri e dagli ispettori dello Spesal che hanno consentito di ricostruire l’intera filiera dei pomodori che dalle campagne salentine finivano alle multinazionali delle conserve e, sotto forma di pelati o salsa, sulle tavole degli italiani. Il lavoro degli inquirenti è stato avviato dopo il decesso del bracciante sudanese per infarto (come accertato con una consulenza medico legale) a quasi 40 gradi il 20 luglio del 2015 nelle campagne tra Nardò e Avetrana. Il cittadino, originario del Sudan, aveva deciso di raggiungere il Salento lasciando moglie e figli. Come tanti suoi connazionali si era trasferito in una delle tendopoli allestite per la stagione estiva e ogni giorno raccoglieva pomodori. Quel giorno il 47enne era impegnato nella raccolta e nel carico di pomodori all’interno di apposite vaschette. Senza mai fermarsi. Un lavoro meccanico e sfiancante.
Fino a quando Mohammed non avvertì un malore che non gli lasciò scampo. Per la Procura, così come riportato nel capo d’imputazione, gli imputati avrebbero approfittato dello stato di vulnerabilità, di bisogno di necessità degli immigrati spinti dalla assoluta indigenza in cui versavano nel loro paese d’origine, privi di adeguate conoscenze della lingua italiana e del timore di perdere l’unica fonte di sostentamento. Tra l’incudine dei loro presunti sfruuutatori e il martello di perdere il lavoro, i migranti sarebbero stati sottoposti a ritmi sfiancanti, lavorando per 10-12 ore al giorno, spesso in nero, in condizioni atmosferiche e climatiche assolutamente usuranti. Senza riposo settimanale; senza il rispetto delle normative sulle pause. In più la retribuzione veniva regolata non dalle ore di lavoro ma dai cassoni riempiti. Un lavoro massacrante per compensi di gran lunga inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali e comunque sproporzionati alla quantità e alla qualità del lavoro. Perché, ipotizza il pm, il compenso era pari a 50 euro al giorno da cui dovevano essere detratte le somme trattenute per il trasporto.
Gli incroci di testimonianze raccolte dagli investigatori hanno fatto convergere l’attenzione sui ruoli ricoperti dal cittadino senegalese e dal titolare dell’azienda per cui lavorava Mohamed. E sono emerse carenze su più fronti: assenza di un presidio medico: come la cassetta di primo intervento; guanti e scarpe a protezione; copricapo per difendersi dalle insolazioni; erogatori di acqua potabile.
I neo imputati sono difesi dagli avvocati Ivana Quarta (sostituita in aula dal collega Giuseppe Sessa) e Antonio Romano. Diverse le parti civili costituitesi nel giudizio: la moglie e la figlia di Mohamed Abdullah (assistite dall’avvocato Cinzia Vaglio) che hanno avanzato un risarcimento di 1 milione e mezzo di euro; la Cgil con l’avvocato Viola Messa; la Cidu (Centro Internazionale dei Diritti Umani) rappresentata dal Presidente Cosimo Castrignanò e difesa dall’avvocato Paolo Antonio D’Amico; la Mutti e la Conserva Italia, (le due aziende cui arrivavano i pomodori raccolti dai lavoratori stagionali) assistite rispettivamente dal professore Vincenzo Muscatiello e dal’avvocato Anna Grazia Maraschio.