LECCE/CASARANO – C’è chi si abbraccia; chi si commuove e chi, invece, abbandona l’aula in tutta fretta per l’emozione e sfuggire così alla ressa di giornalisti, taccuini e telecamere. I genitori di Daniele De Santis ed Eleonora Manta hanno appena ascoltato il verdetto (più logico e scontato) nei confronti dell’assassino dei loro figli: l’arbitro leccese e la sua fidanzata, funzionaria Inps, originaria di Seclì. Ergastolo, infatti, è la condanna inflitta dai giudici della Corte d’assise ad Antonio De Marco, un ex studente di Scienze infermieristiche di 22 anni, coinquilino della coppia per mesi prima di trasformarsi nel loro carnefice tempo dopo. L’aula bunker del carcere di Borgo “San Nicola” è un profluvio di emozioni e sentimenti che esplodono dopo mesi di attesa, silenzi e sofferenza quasi estenuanti.
Non c’è la forza e neppure la voglia (ma non il perdono) di accanirsi contro l’assassino tra i familiari dei due ragazzi uccisi con 79 coltellate nel loro primo giorno di convivenza, il 21 settembre del 2020, nel condominio di via Montello, a due passi dalla stazione ferroviaria di Lecce. I carabinieri monitorano con discrezione il deflusso ma tra i parenti di Eleonora e Daniele c’è solo il desiderio di lasciarsi andare alla commozione o in un abbraccio liberatorio. Ed è così anche tra i loro avvocati. Raccolgono il verdetto – che prevede una serie di provvisionali ma non l’isolamento diurno di 1 anno così come disposto dai giudici togati e popolari (Presidente Pietro Baffa, a latere Francesca Mariano) – con qualche pacca sulle spalle, ma non ci sono le scene che, spesso, si vedono a margine di processi così delicati. Come se la sentenza del carcere a vita nei confronti dell’omicida reo confesso dei due ragazzi fosse scontata da un punto di vista processuale e doverosa agli occhi dell’opinione pubblica e poter onorare così la memoria di due ragazzi uccisi nel fior fiore delle loro esistenze.
Rimangono in disparte anche gli avvocati dell’assassino reo confesso che, anche oggi, al momento della lettura del dispositivo, è rimasto lontano dall’aula e dalle telecamere. Coerente in questo percorso processuale De Marco ha sempre scelto di disertare tutte le udienze senza mai comparire al cospetto di giudici e familiari delle vittime per recitare un mea culpa che chissà poi quanto sarebbe servito per addolcire i sentimenti dei familiari dei ragazzi e strappare la clemenza della Corte una volta chiusasi in camera di consiglio. De Marco, in questi mesi, si è presentato soltanto dinanzi al dottore Elio Serra e allo psichiatra Pasquale Carabellese (docente di criminologia presso l’Università di Bari) perché i due periti di parte hanno dovuto valutare la sua capacità di intendere e di volere minata, a dire dei suoi legali, da una esistenza (seppur così breve) costellata da delusioni d’amore che lo avrebbero destabilizzato a tal punto da identificare nella giovane coppia i bersagli più facili e a lui più vicini su cui riversare il suo “mal di vita” e la sua “gelosia”. “Loro erano felici, io no” scriveva De Marco nei fogli sequestrati dai carabinieri del Reparto operativo.
Sulla scorta dei brevi incontri in carcere con il ragazzo che ha sempre dimostrato un’imbarazzante ritrosia a parlare di se stesso se non con manoscritti o lettere al computer come emerso nel corso delle indagini, i consulenti avevano ipotizzato “un grave disturbo della personalità e una condizione psicopatologica dello spettro autistico”. In termini meno tecnici ai fini processuali, volevano dire che De Marco era un ragazzo affetto da una parziale infermità di mente che andava valutata con una perizia psichiatrica. Istanza sempre rigettata dalla Corte che si è allineata con le conclusioni dei suoi periti, quelli che hanno escluso, da subito, vizi parziali o totali di mente e che hanno concluso il proprio elaborato sottolineando “un disturbo narcisistico della personalità di tipo convert”. Anche perché De Marco ha progettato lucidamente il duplice omicidio (da qui la condanna anche con l’aggravante della premeditazione). Aveva acquistato l’arma (un coltello) tempo prima da un negozio specializzato; aveva studiato il percorso evitando le vie in cui poteva essere immortalato da sistemi di videosorveglianza mentre il 19 agosto del 2020, a pochi giorni dal delitto, lo studente aveva cancellato la figura di Daniele da un’applicazione di WhatsApp dopo aver salvato l’immagine di Eleonora.
E’ lui che De Marco voleva sopprimere. “Poteva uccidere chiunque se fosse stato un soggetto folle. Aveva occasioni in ogni dove. Sul posto di lavoro o all’esterno. Ma lui voleva colpire chi, a differenza di lui, era felice” aveva sottolineato la pm Maria Consolata Moschettini nel corso della sua requisitoria. E, dopo il duplice delitto, De Marco torna a casa. Si siede davanti al computer e scrive alla madre e alla sorella una lettera in cui confessa un omicidio premeditato e programmato da tempo: “Fino a qualche tempo fa non avrei pensato di arrivare a questo punto ma ormai è successo e non si può tornare indietro” scrive il giovane ai familiari spronandoli a farsi forza “dimostrando – secondo la pm – una lucida consapevolezza”. E dopo il delitto riemerge nella vita di tutti i giorni con una tranquillità disarmante: acquista un fumetto, fa sesso con una escort e va a ballare ad una festa nel giorno dei funerali dei due ragazzi. Per i giudici crudeltà, l’altra aggravante. Sessanta giorni per conoscere le motivazioni mentre dagli scranni della difesa a voce bassa si alzano le braccia per un verdetto scontato ai più. Come anche per la Corte.