Una comunicazione simbolica

I segni di scalfitture presenti sui reperti litici rinvenuti di recente al di sotto dei ghiacciai delle Alpi svizzere, (Vedi: Simboli enigmatici rinvenuti su oggetti di 50.000 anni fa di Daniela Giannace 17—Feb—2025 / 9:56 AM) sono stati analizzati da archeologi che hanno riconosciuto l’intenzionalità di chi li ha prodotti nel Paleolitico medio di cinquantamila anni fa. Gli analisti hanno escluso che quei segni corrispondano a scalfitture naturali della pietra e che siano incisioni tracciate in maniera casuale. Essendo stati riprodotti più volte su oggetti distinti, hanno fatto supporre loro che siano, invece, ‘segni significanti’. Estendendo il concetto, possiamo assimilarli a quelli di un repertorio geometrico-astratto di un linguaggio iconografico composto da simboli, la cui produzione si è svolta in modo collaterale alle rappresentazioni di forme realistiche proprie dell’espressione artistica del successivo Paleolitico Superiore.

Intenzionalità nell’elaborazione dei simboli

Per meglio comprendere il processo intenzionale attivato nel cervello di quei progenitori Sapiens, quello necessario a comporre segni aventi forma semplificata in uno schematismo comprensibile o sintetizzata in forme di tipo geometrico-astratto, era richiesta la “conoscenza oggettiva” dell’originale da cui si traeva ispirazione, insieme a quella del suo significato, affinché quell’originale “linguaggio simbolico” potesse essere riconosciuto da tutti coloro ai quali era destinata la comunicazione. Quei segni sintetici veicolavano idee originali che rimandavano in forma semplificata e traslata ai concetti di una dottrina derivata dalla conoscenza dei processi cosmogonici e cosmologici. Essi, assumevano, pertanto, la qualità di archetipi, di idee originali elaborate da menti capaci di interpretare il linguaggio della natura e di formulare una dottrina di norme composte da quel repertorio di segni significanti, ossia di “simboli”.

Il simbolo così elaborato doveva comunque mantenere integro il significato intrinseco dell’oggetto da cui era derivato, affinché potesse essere comprensibile anche il senso del messaggio che si intendeva veicolare tramite esso. Presupposto necessario, questo, per la comprensione corretta di norme comuni da condividere e rispettare anche in contesti diversi dai luoghi di origine, da cui l’attribuzione dei posteri dell’aggettivo “universale”.

Un repertorio proto-scritturale composto da “simboli universali”.

Espressione iconografica “colta” della protolingua dei Sapiens, il repertorio dei simboli assumeva anche la qualità ideogrammatica, che concedeva la libertà di adattare a contesti diversi i concetti originari, senza però dover travisare il significato archetipico originario. Tutte quelle forme sintetiche geometrico-astratte di segni aventi significati condivisi e diffuse in ambito euroasiatico nel Paleolitico e nelle epoche successive, rientrano, pertanto, in un repertorio che si può definire proto-scritturale, composto da un codice di “ideogrammi”, ai quali è stato riconosciuto un carattere universale.

Si deduce che quei segni di cinquantamila anni fa abbiano avuto la loro origine in un’operazione intenzionale degli individui vissuti nel Paleolitico medio, elaborati per la necessità di intrecciare una prima forma di comunicazione codificata, composta da segni geometrici, che nel tempo si sono evoluti e si evolvono, rientrando così tutti nel medesimo repertorio dei “simboli universali”.

L’intenzionalità in un atto comunicativo

Per fare ulteriore chiarezza riguardo ad un repertorio di simboli attribuibili ad una forma di proto-scrittura, è necessario comprendere quali sono le capacità dell’uomo che regolano il processo di astrazione, la quale parte dal dato oggettivo, lo interpreta e lo sintetizza in forma iconografica, fino a condurre all’elaborazione di un carattere simbolico e ideogrammatico. Per questo rimandiamo agli studi più recenti che analizzano le capacità delle facoltà cerebrali neurolinguistiche che sostengono l’intenzionalità applicata ad un atto comunicativo di un essere vivente, dei primordi o attuale, appartenente al medesimo genere Homo Sapiens.

Il presupposto è quello di comprendere in che modo l’uomo prende coscienza della realtà ambientale, come impara a conoscere gli elementi presenti in un contesto spazio-temporale locale, dai quali astrarre, con un processo razionale specifico, i principi che compongono le regole generali.

I neuroscienziati che si pongono tali domande, come Anil K. Seth, professore di Neuroscienze Cognitive e Computazionali presso l’Università del Sussex e co-direttore del Sackler Centre for Consciousness Science, autore del libro “Being You: A New Science of Consciousness” si dedicano a esplorare i misteri che ancora circondano la formazione della coscienza.  Per questo il neuroscienziato Anil K. Seth indaga su tutte le aree di empatia che correlano tra loro i distinti ambiti del sistema complesso delle interazioni neurali, svolgendo un’operazione di carattere interdisciplinare che correla gli specifici processi biologici, di cui si occupa in particolare, agli ambiti più ampi delle neuroscienze e di altre discipline umanistiche, come la psicologia e la filosofia, ritenute antitetiche a quelle scientifiche. Per il neuroscienziato britannico l’intenzionalità applicata ad un atto comunicativo implica che il cervello, che non è un passivo ricettore di stimoli, ma è un <attivissimo rielaboratore di messaggi>, per avvicinarsi quanto più possibile ad una “oggettiva” comprensione della realtà, elabora mappe topologiche interne simili, ma non uguali a quella osservata.

Per comprendere le dinamiche applicate nel cervello per la realizzazione di mappe interne derivate da un processo di rielaborazione dei messaggi provenienti dall’esterno in forma caotica, possiamo fare riferimento anche ad altri studi di neuroscienze, come quelli recentemente pubblicati sulla rivista Neuron.

Essi si riferiscono ad una ricerca condotta dagli scienziati dell’Edmond and Lily Safra Center for Brain Sciences e del Racah Institute of Physics presso l’Università Ebraica di Gerusalemme. Applicando modelli teorici per la comprensione di come il cervello recepisce gli spazi esterni pervenuti nell’ippocampo in forma di stimoli casuali e caotici, gli scienziati, guidati da Yoram Burak, hanno formulato l’ipotesi che nel suo interno si forma un codice di parole che indicano le varie parti dello spazio reale, così da poter organizzare corrispondenti mappe topologiche interne. Gli scienziati hanno analizzato in particolare il ruolo delle ‘cellule di luogo’ attive nell’ippocampo, ossia quei neuroni specializzati nella codifica spaziale, preposti ad organizzare le informazioni che arrivano dallo spazio reale.  Il gruppo è pervenuto all’ipotesi che, per avvicinarsi quanto più possibile ad una “oggettiva” comprensione della realtà, il cervello organizza mappe topologiche ordinate secondo una regolarità dettata ai neuroni da un linguaggio interno che si organizza secondo le regole di un ‘codice cosmico’ che applica principi universali.

Lo studio ha sorpreso il mondo scientifico, poiché pone l’accento sul principio di casualità che presuppone una dinamica organizzazione sinaptica dei neuroni, facendo abbandonare l’idea consolidata della progettazione specifica nell’organizzazione dei circuiti neuronali che si credeva dovesse essere guidata, invece, da una insita struttura rigida.

Il modello teorico utilizzato dagli scienziati per decodificare il dinamico linguaggio interno dei neuroni che organizzano autonomamente una mappa topologica interna per ordinare secondo regole universali gli stimoli casuali che provengono caotici dall’esterno, corrisponde a quello dei Processi gaussiani, una classe di funzioni matematiche casuali, le quali permettono di comprendere l’iter seguito dalle regole che si susseguono in natura per procedere alla formazione di fenomeni presenti tanto su scala topologica, quanto su scala cosmologica.