F.Oli.
NARDO’ (Lecce) – La Procura di Lecce avanza richiesta di rinvio a giudizio per i presunti caporali accusati della morte del bracciante sudanese Mohamed Abdullah. Rischiano il processo: Giuseppe Mariano, 75 anni, detto “Pippi”, di Porto Cesareo, titolare di fatto dell’azienda e Mohamed Elsalih, 38enne, di origini sudanesi, che, secondo gli accertamenti, avrebbe reclutato manovalanza a basso prezzo da sfruttare poi nei campi. Le accuse sono: caporalato e omicidio colposo. L’indagine, coordinata dal sostituto procuratore Paola Guglielmi, ha ricostruito l’intera filiera dei pomodori che dalle campagne salentine finivano alle multinazionali delle conserve e, sotto forma di pelati o salsa, sulle tavole degli italiani.
Il lavoro degli inquirenti è stato avviato dopo il decesso del bracciante sudanese morto per infarto (come accertato con una consulenza medico legale) a quasi 40 gradi il 20 luglio del 2015 nelle campagne tra Nardò e Avetrana. Il cittadino, originario del Sudan, aveva deciso di raggiungere il Salento lasciando moglie e figli. Come tanti suoi connazionali si era trasferito in una delle tendopoli allestite per la stagione estiva e ogni giorno raccoglieva pomodori “per dieci/dodici ore al giorno per un compenso giornaliero di 50 euro sproporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto”. Un sacrificio dispendioso in termini di energie fisiche. Quel giorno il 47enne era impegnato nella raccolta e nel carico di pomodori all’interno di apposite vaschette. Senza mai fermarsi. Un lavoro meccanico e sfiancante.
Fino a quando Mohammed non avvertì un malore che non gli lasciò scampo. Le accuse sull’imprenditore sono messe nero su bianco dal pm quando scrive che ”non avrebbe effettuato la necessaria visita medica, da parte di un medico competente che potesse accertare la capacità del lavoratore in rapporto alla propria salute e sicurezza ed in relazione al proprio pregresso stato di salute”. Negligenze e imperizie, insomma.
Approfondimenti su un doppio binario andati avanti per mesi: i carabinieri si sono soffermati su chi abbia gestito il business; gli uomini dell’ispettorato del Lavoro, invece, su eventuali irregolarità e sulle normative sicurezza. In tutti questi mesi sono state sentite decine e decine di lavoratori italiani e stranieri a sommarie informazioni. Gli incroci di testimonianze raccolte dagli investigatori hanno fatto convergere l’attenzione sui ruoli ricoperti dal cittadino senegalese e dal titolare dell’azienda per cui lavorava Mohamed. E sono emerse carenze su più fronti: assenza di un presidio medico quali la cassetta di primo intervento; guanti e scarpe a protezione; copricapo per difendersi dalle insolazioni; erogatori di acqua potabile.
Gli accertamenti si sono avvalsi di una consulenza informatica dell’ingegnere Claudio Leone che ha scremato i contatti telefonici del mediatore senegalese risalendo alla filiera della raccolta e della vendita dei pomodori. L’accusa di omicidio colposo veniva contestata anche a Rita De Rubertis, titolare dell’azienda. Il pubblico ministero ha però stralciato la posizione della donna e chiesto l’archiviazione. Dalla morte del bracciante, la Procura ha poi sviluppato un’indagine ad ampio respiro sulle centinaia e centinaia di casse di pomodoro destinate alla grande distribuzione. I neo imputati sono difesi dagli avvocati Ivana Quarta e Antonio Romano. I familiari del bracciante, invece, dall’avvocato Cinzia Vaglio.