«Alla poesia non serve una chitarra, / è il suono di chi non ha parole. / Se le metterete il velo da sposa, / s’imbriglierà nella veste. / Buttate la poesia tra le gambe di una donna che passeggia, / ondeggia, / senza musica. / Spalanca tutte le bocche. / Parla tutte le lingue» (p.79): una poesia poliglotta sembra voler essere quella cantata da Elisa Longo in “Ho sbagliato tutto perché lo vedevo con i miei occhi” per i tipi de “I Quaderni del Bardo Edizioni”. In realtà, l’unica lingua che accomuna ogni essere umano è quella dell’amore: predomina, straripa, trasborda l’amore vissuto tra l’imperfetto amarsi o odiarsi di due soggettività individuali.
Elisa Longo veste tale sentimento caratterizzato da diverse sfaccettature che non presentano nulla di ‘democratico’ in quanto l’amore si sa è ‘aristocratico’, a tratti ‘anarchico’, o nel peggior dei casi ‘dittatoriale’. Si tratta di versi liberamente narrati nella solitudine del proprio sé, nello specchio riflesso con l’altro dove non vuol prevalere alcun insegnamento, se non un modo di comunicare il proprio vissuto, le intricate relazioni, le condivise emozioni che, chi prima – chi poi, ha provato nel corso della propria esistenza.
Forse. Proseguendo con la lettura e con uno “sguardo” oltre le righe, la pagina appare più nitida: una sorta di autoanalisi per cercare di comprendere i propri errori, le proprie dimenticanze, e viceversa; o persino una confessione à la Agostino o à la Rousseau. Un’autobiografia del peccato? Anche Sant’Agostino è stato un amante delle passioni, si definisce un peccatore dell’amore prima di raggiungere la fede e la santità.
Così, «non è mai stato un capriccio, / volerti, / tu che conosci la mia bocca / e quanto mare diventa nella tua. / Mentre mi baci, / si riempie fino all’orlo di pesci trombetta / che annunciano il nostro ritorno. / Stelle marine si aprono / sul tuo smalto bianco. / La tua ugola è il sole nella baia / e le lingue come due balene / giocano a rincorrersi, / sprofondano, / riemergono, a prendere fiato» (p. 19); e ancora, «Non è mai stato un capriccio, / trovarsi insieme ad Atlantide, / dove le mie parole / sono solo tue. / Tuoi tutti i “Ti amo”, / in-spartiti che non ci abbandonano, / mai, / rimangono, come le frasi costruite per / rincuorarti dai pollici verso / della platea riunita al Colosseo. / Ti ho nascosto nei: / “lui, lei, loro” / di soggetti mascherati, / di cui tu solo “sei principe”» (pp. 19-20). In definitiva, una relazione interpersonale che assoggetta la “maschera”: “La maschera crea una figura; è intangibile, stabilisce una distanza tra sé e l’osservatore. Essa può avvicinarsi maggiormente all’osservatore stesso – forse durante una danza -, ma questi per parte sua, deve restare là dove si trova. La rigidità di forma diviene anche rigidità di distanza: il fatto che la maschera, non muti affatto, è appunto ciò che la rende allontanante.
Immediatamente dietro la maschera comincia il mistero”, scrive Elias Canetti in “Massa e potere”; “con essa sorge e decade il dramma”, e con essa la persona quotidiana si trasforma nella sua quotidianità. Certi che le maschere possono essere molteplici, il gioco a volte può assumere toni tragici e proseguire sino a che le necessità lo richiedono. Ma ancora Nietzsche: “tutto ciò che è profondo ama la maschera … a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera”. Di questa maschera cerca di liberarsene Elisa Longo, ma non della profondità, dichiarata apertamente nella silloge “Ho sbagliato tutto perché lo vedevo con i miei occhi”. Si alternano l’abbraccio, la complessità, il bisogno, il desiderio, la menzogna, il dolore: le contraddizioni dell’umano. Non saprei – qualora ce ne fosse la necessità per l’appunto – intravedere una comparazione con un poeta, non saprei, non vorrei se non leggere con semplicità e nitido ascolto della parola: in silenzio, si avverte il significato di ciò che è traccia sulla pagina, signum del pensiero, dell’essere, contemplato dall’Autrice. E infine, la grande voglia di bellezza: “noi abbracciati in una grotta in riva al mare”, l’istinto e la ragione insieme si congiungono nel sogno, nell’utopia e disegnano l’armonia. Ecco sì, in fondo l’amore è questo: è armonia. Ma è anche: «L’angelo/demone che dice che tutto, è “un richiamo d’amore”. Un cammino, una corsa irreversibile di non fine mai anche nella sua fine», così scrive nella prefazione Enrico Marià.