LECCE – Era il 3 gennaio 1966 quando si celebrò a Lecce il solenne funerale di Tito Schipa. Quel giorno la città gli decretò gli onori del trionfo senza precedenti.
Vale la pena provare a raccontarlo.
La bara, con i resti mortali del grande tenore, passò tra due ali fittissime di folla stipata lungo i viali, sui balconi, nelle anse delle vecchie vie e in piazza S. Oronzo.
Per avere una minima idea dell’importanza di quell’evento basti dire che il corteo funebre si snodò per circa due chilometri. La bara, posta su di un lussuoso carro scortato da carabinieri e vigili in alta uniforme, fu seguita dai parenti, da tutte le autorità civili e religiose, e da una folla immensa, affranta e commossa.
Il corteo partì da Porta Napoli e giunto in prossimità del Liceo musicale, intestato a Tito Schipa che l’aveva fatto costruire a proprie spese, fece una breve sosta.
Il Sindaco, Francesco Sellitto, entrò nel Liceo e pose una corona d’alloro ai piedi del gruppo marmoreo che ricordava l’artista. Se Tito avesse potuto vedere quello spettacolo di folla, viverlo e gustarlo, avrebbe sicuramente dimenticato le tante amarezze della vecchiaia, le rinunce, le sofferenze ed anche la povertà degli ultimi anni.
Il tenore che aveva incantato le folle nei teatri più importanti del mondo, forse, si sarebbe levato in piedi e avrebbe intonato: “Lecce gentile e bella voglio cantarti quel che oggi mi sento in questo cuore”, esprimendo, ancora una volta, il suo amore profondo per la terra natia. E, invece, giaceva in smoking in quella bara chiusa, foderata di raso bianco, in attesa di raggiungere l’eterna dimora.
In Piazza S. Oronzo, quando la bara fu deposta su un panno nero, accadde un evento memorabile. Parve a tutti che egli salutasse la sua gente quando dagli altoparlanti fu diffusa la sua voce registrata che cantava, in modo sublime, l'”Ave Maria” di Schubert. In essa si coglieva la profonda fede e devozione dell’artista.
La commozione fu unanime, rotta a tratti da un pianto corale. Si avvertì in tutti il triste vuoto di quell’assenza, dopo anni di trionfi e di impareggiabili recitazioni. Il Sindaco, nel discorso commemorativo, assunse il solenne impegno che la città avrebbe onorato la sua arte. Poi, il corteo raggiunse la Basilica di Santa Croce, ove il parroco, don Temistocle De Leo, officiò il sacro rito mentre il coro del Teatro Petruzzelli di Bari eseguiva l’accompagnamento funebre.
Il grande tenore si era spento a New York, a causa di un collasso cardiocircolatorio, diciotto giorni prima, il 16 dicembre 1965, all’età di quasi settantasette anni, lontano dai suoi, dimenticato da molti, più povero di quanto lo fosse stato agli inizi, quando da scugnizzo stregava chiunque nel quartiere della Chiesa delle Scalze.
Qui, in Vico dei Pensini, al civico 6, il 27 dicembre 1888 (ma all’anagrafe la nascita fu certificata il 2 gennaio del 1889 per guadagnare un anno sulla leva militare) era nato Raffaele Attilio Amedeo Schipa, meglio noto con il vezzeggiativo Tito.
Era stato Giovanni Albani, il suo maestro di musica alla scuola elementare, durante una delle prime lezioni, a percepire quell’immenso talento che troverà in Alceste Gerunda e nella sensibilità e lungimiranza di Monsignor Gennaro Trama, a capo della diocesi nei primi anni del ‘900, due importanti punti di riferimento negli esordi artistici del grande artista.
La città di Lecce lo accolse, però, solennemente solo quel giorno del gennaio 1966. Rimase a lungo impressa, nei ricordi, quella voce di una bellezza inconfondibile, per la dolcezza dello smalto e per la suggestione della carica emotiva. Tito, il celebre “tenore di grazia” osannato nel mondo, non perse mai quel suo parlare anche in dialetto leccese, ovunque si trovasse, fosse New York, Montecarlo o San Francisco.
Espresse così l’amore profondo per la sua terra che l’aveva visto squattrinato ed a torso nudo, cantare, come un usignolo, tra i vicoli polverosi della città vecchia. In quelle stesse contrade che saranno celebrate dal poeta Vittorio Bodini, la cui casa in via De Angelis, al n.33, distava solo pochi metri da Vico dei Pensini.
Forse, proprio nelle sue due canzoni in vernacolo più famose, “Quannu te llai la facce la matina” e “Beddhra ca la matina te auzi frìsca de rosa”, si coglie, meravigliosa, la profonda anima salentina di quell’autentico fuoriclasse che fu Tito.
di Giorgio Mantovano